martedì 28 maggio 2013

Antonio Verri e il fare rivista

Antonio Verri con una copia del Quotidiano dei poeti 
 attraversa un'opera di Umberto Palamà
in una fotografia di Fernando Bevilacqua virata in giallo


Per un’etica della letteratura. 
Antonio Verri e le riviste letterarie
di Simone Giorgino

L’engagement, la letteratura intesa come militanza attiva, partecipazione e operatività culturale emerge in maniera netta nell’attività da pubblicista di Antonio Verri, sempre contraddistinta da una robusta verve polemica.
Parlando di sé in terza persona, in un numero del suo “Pensionante” Verri scrive, senza troppe ritrosie, di un caustico “omino curioso” che “odia l’affettazione, l’ostentazione di cultura, gli epigoni, i tecnici di quasi tutto, i poeti e gli scrittori domenicali, gli editori colmi di vasellina, questo grosso quasi-bordello letterario nazionale (e poi man mano […], locale e particolare) segnato da una scrittura caramellosa e distratta, dalla fretta, dal perbenismo, dal ‘lei non sa chi sono io’”.
Tra il 1977 e il 1993 Verri si fa promotore di numerose riviste e fogli letterari, in una frenetica e generosa attività che si fonda sull’intenzione di traghettare la cultura e le lettere salentine fuori dagli angusti confini provinciali. L’ossessivo spauracchio dell’isolamento culturale è, per Verri, sempre incombente, ed egli cerca di aggirarlo ricorrendo, a volte, a soluzioni francamente poco convincenti come, ad esempio, l’internazionalizzazione delle corrispondenze con interventi di autori spesso oscuri ma dai nomi esotici, provenienti dai più disparati Paesi europei e sudamericani.
Più efficace, perché basato su più solide competenze, è il proposito di tutelare il patrimonio letterario locale attraverso meritevoli interventi volti alla valorizzazione di autori come Vittorio Pagano, Rina Durante e Salvatore Toma. 
Proprio a Toma, il “poeta dei liburni e dei corbezzoli”, Verri dedica, in tempi non sospetti, cioè prima del drammatico suicidio e della successiva e frettolosa riscoperta, numerosi articoli e recensioni. Verri ebbe una sincera ammirazione per lo sfortunato poeta magliese, testimoniata non solo dai frequenti cenni disseminati in molte pagine delle sue opere (“Totò Franz” è il nome che inventa per ricordarlo), ma anche da un esplosivo e interessantissimo carteggio fra i due, parzialmente documentato in due pubblicazioni curate da Maurizio Nocera, Dieci anni in rivista  (Matino, Banca Popolare Pugliese, 1990) e Totò Franz altrimenti detto Totò Toma (Amaltea, 2002).
Attraverso l’esperienza delle riviste, Verri mette in pratica un preciso progetto culturale e letterario, fondato sull’etica della militanza intellettuale. In un suo articolo apparso sul “Quotidiano” si legge: “Il poeta ha una sua funzione sociale: mettersi o mettere continuamente in discussione dogmi, tabù, cretinerie quotidiane e grossi problemi […]. Il poeta non lavora più, o magari solamente, sul nulla o sull’assenza, temi sempre affascinanti ma un po’ vecchiotti; il poeta ha sempre di più responsabilità e problemi di linguaggio, di stile, di aderenza a una realtà abbastanza complessa, di tensione, di rivolta”.
Per espletare tale funzione, il poeta ha bisogno di un opportuno “megafono”, ossia di una rivista letteraria che gli possa servire da cassa di risonanza: “Una rivista seria di letteratura, come io la intendo - scrive Verri -, deve muovere un bel po’ di gente, di idee, stimolare compagni e non compagni, agire, combattere dove sono ubicati i ‘palazzi’ […], per una letteratura di rancore, gomito a gomito, per combattere le ‘poetiche’ ufficiali, i mali dentro, i clientelismi culturali”.
È, questa, una linea programmatica che Nicola Carducci riconduceva al “neoimpegno”, un atteggiamento tornato di moda nella letteratura italiana a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta e finalizzato, nel caso di Verri, ad un intervento fattivo nella realtà culturale e sociale del proprio territorio.
Verri si sente parte integrante, erede e animatore di una comunità letteraria orgogliosa di essere borderline, se per allineata si intende quella cultura ossequiosa col potere editoriale, incline al compromesso; una comunità  di “poeti che appartengono a una specie diversa, a volte primitiva e barbara, a volte così fine, meticolosa, spigolosa. Facile a perdersi, a divorare, a disperarsi. Non è difficile aver simpatia per loro”.
Questo concetto è ribadito in altre sedi con immutata foga “agonistica”: “Si è parlato di una nuova generazione, di una stupenda generazione, si è anche cercato di dimostrare che il tutto non è una frase fatta, si è fatto di tutto per far intendere che il Salento degli Autori non è più il Salento scrostato che è sempre stato, si è fatto di tutto per far intendere che siamo semplicemente in marcia per cercare di allinearci a tutta quella cultura europea novecentesca che fino a mo’ era nei nostri libri o svolazzante sopra le nostre teste.”.
Ciò a cui Verri allude (e aspira) è una comunità letteraria agguerrita, competente e competitiva, che non vuole proporsi come sterile parodia delle analoghe esperienze nazionali ma che cerca di sintonizzarsi con le tendenze più innovative della cultura europea al fine di “muovere un po’ le acque in una città, Lecce, divorata dall’indifferenza, dall’incultura, dal vuoto accademico. Una città dove passa solo un certo tipo di cultura. La cultura dei putti e delle damine. Del ‘perbenismo impellicciato’”.
Un bozzetto di questa irriverente, e per certi versi eroica e selvatica stagione della letteratura salentina - con cui è indispensabile, oggi, tornare a confrontarsi -, è tutto in questo emblematico aneddoto, che rappresenta un po’ il termometro del clima culturale a cui Verri si riferiva: “Certo eravamo molto fieri del nostro lavoro quando la Corti, venendo a Lecce nell’ottantadue–ottantatré, chiese al bar Alvino dove poteva trovare i poeti di Caffè Greco. Le risposero piuttosto seccamente. A Lecce non c’erano poeti, men che meno di Caffè Greco!”.

Nessun commento:

Posta un commento