giovedì 30 gennaio 2014

Antonio Verri e la cultura popolare

 
Antonio Verri con mamma Filomena e zia Grazia
Sergio Torsello*

Uno degli aspetti meno frequentati dagli studiosi che si sono occupati dell’opera di Antonio Verri è quello del rapporto dello scrittore con la cultura popolare. Una dimensione apparentemente marginale nella complessa e stratificata produzione verriana che però, a ben guardare, si rivela uno strumento essenziale per addentrarsi nel “proteiforme” laboratorio creativo dello scrittore. Ho cercato in altra sede di evidenziare come l’intera sua opera poetica, narrativa, giornalistica e quella parallela di intellettuale militante e di “promoter” dell’underground creativo locale, sia stata segnata da un legame mai reciso con la cultura popolare. Nei primi anni ’80 infatti fu proprio Verri a tenere acceso un dialogo con alcuni protagonisti del folk revival degli anni ’70 quando ormai la riscoperta delle forme espressive della cultura locale aveva ceduto il passo ad una malintesa idea di modernità che aveva “ esiliato nelle bettole – ha scritto il compianto Aldo Bello con una felice metafora – “i canti improvvisati dei carrettieri”.
Su Pensionante dei Saraceni e Caffè Greco, Verri ospitò i primi interventi di Luigi Chiriatti (un breve scritto sulle ultime rèpute del Salento e una importante intervista a Luigi Stifani, il barbiere violinista che fu l’interlocutore privilegiato di Ernesto de Martino nel corso della sua celebre indagine sul tarantismo salentino del 1959), l’appello di un gruppo di intellettuali di base (“Ritorno a San Rocco”) per la tutela e la rivitalizzazione della Festa di Torrepaduli e, nel 1985, l’articolo firmato a quattro mani da Luigi Chiriatti e George Lapassade sulla sessualità nella cultura popolare salentina. Qui, Verri si limita a offrire uno spazio di visibilità e di riflessione a un “movimento” per certi versi in crisi dopo la stagione aurea del folk revival e quella, intellettualmente ancor più sofisticata, dell’etnoteatro (ispirata alle teorie di Eugenio Barba). Si limita a registrare un fermento, un fuoco che cova sotto le ceneri, un flebile segnale di ripresa al quale offre una sponda, comunque una sensibilità e una attenzione niente affatto scontata in quegli anni. E non va dimenticato che nel 1983, per le edizioni del Pensionante, sarà sempre Verri a pubblicare Col tempo e con la paglia, una raccolta in “grico” del poeta contadino di Sternatia, Cesare De Santis, “cultore, tenace soldato e detentore” – scrive Verri nell’appassionata introduzione - “degli ultimi segni e segreti di una lingua e di una civiltà, la greco – salentina, in rapidissimo e totale disfacimento”. Nel 1986 esce invece quello che personalmente considero il testo più affascinante sul mondo popolare salentino che sia stato scritto da un poeta dal dopoguerra a oggi. Certo, c’è stato il Bodini della Luna (Uno l’ho visto io/camminare col capo in giù/ sul soffitto/ altri bevevano a un pozzo di scorpioni e di serpi/non senza gridi/ nel viola acido e sporco di una cappella/mentre fuori era il chiaro giorno/ steso così avanti/ come il Cristo del Mantegna) e c’è stato anche il Pagano dei Privilegi del povero (Come tarantati a capofitto/ scenderanno giù, verso la polla,/ d’ogni scienza possibile, più giù,/luminoso delitto/ a conoscere il segno in cui tracolla/la nostra schiavitù?..Come tarantolati, in ridde, in cori/ di ridondanti mimiche vedremo zampillare dal grembo dei graniti/ l’ombra che ci ristori? Oh gettiti, oh pietà! L’urto supremo/ schianta in eterni riti). Ma credetemi, al confronto questi sono semplici esercizi di stile. Niente di più. Il testo di Verri è destinato al catalogo della mostra “La cultura contadina”. Il titolo, un classico stilema verriano, è a dir poco depistante: La cultura dei Tao. Ho letto e riletto più volte questo scritto e ogni volta con sorpresa ho trovato tra le sue righe parole diverse, spunti per una nuova riflessione, un’altra occasione per mettere in discussione luoghi comuni consolidati, retoriche vuote, vecchi e nuovi “esotismi”. E’ un testo stracitato, ma solo per un passaggio di insolita, folgorante bellezza:
Cambia, cambierà di molto il volto della campagna, degli aggregati umani, di interi paesi. È cambiato dal dopoguerra ad oggi, cambierà ancora tra due, tre generazioni. E cambieranno naturalmente anche abitudini, modi di lavoro, rapporti…, ecco quello che non cambierà mai sarà l’idea del dialogo con la terra che l’uomo ha stabilito dai tempi, il grosso respiro, il sibilo lungo che si può udire solo di mattina, mirando nella vastità dei campi, con accanto sentinelle silenziose gli alberi d’argento.
Ma è solo uno dei passi più ispirati. Il resto, il prima e il dopo, è un continuo andirivieni tra memoria del passato e l’eterno presente della scrittura, tra mito e storia, realtà e finzione letteraria. L’incipit (quasi un omaggio leopardiano, ha ricordato Fabio Tolledi) è un bellissimo, intenso dialogo con la madre, collocato in un tempo imprecisato: l’inverno che tagliava le gambe, le tasche gonfie di fichi secchi, l’inverno tristissimo perchè a Febbraio era già finita la scorta della monda. Secondo Rossano Astremo La cultura dei Tao segna l’adesione di Verri al materno come modalità di rappresentare la “voglia di oltrepassare le forme chiuse della letteratura dei padri”. 
Ma c’è qualcosa che va al di là del puro dato letterario. “Tanto ho appreso, altrettanto mi è stato insegnato” scrive Verri. “Che per molti fiori di giardino esiste un corrispondente selvatico”, ho imparato ad apprezzare “poveri oggetti, situazioni le più umili, ma portate con tale dignità, che serenità buon senso e innamoramenti al limite del pianto, sono cose che io oggi, figlio di questa cultura, posso opporre a volte con tale incauta destrezza da rischiare di bruciare, con legna d’ulivo, il sibilo lungo di una cultura millenaria…”.
Poi si torna al racconto. All’immagine del padre, “nell’eterna sua magrezza, a capo chino, severo, somiglia un pìstico sognatore di lucchi, un tenero rabdomante di chissà quali sotterranei giacimenti… alle figlie sposate in altri paesi, alle fiere di paese, all’inverno dei pirichilli”… “La letteratura di questa gente magra, dalle mani callose, è fatta di fole e angiolese, di orchi benevoli, di tao che girano a mezz’aria, di spiritelli birichini, di fibule, di glimpe di penule di purissimi cavalieri che di notte riposano sui tetti bassi delle case bianche, o nelle corti, sotto la prèula, accanto al gelsomino, o in stàbule di campagna sopra lettiere di sarmenti, nella paglia”. Su tutto domina la mar (la madre) e la cultura dei tao. “Era stato un inverno tristissimo quello. L’inverno della calata dei tao. I tao ci sono sempre in un paese. I nostri paesi ne sono strapieni. Giocano, vorticano continuamente i tao in questa cultura, in queste contrade. A mezz’aria. Sono loro i regolatori di questa sposa, alle nenie, alle ballate ai contra dei trovieri di paese(…) loro che hanno inventato il cane dello Scialla che fece cento chilometri per un bicchiere di vino, la Peppa Landa che compra galline cadenti, il magico lumicino della Lucerna di Iacca, il Morso che fa ballare, i giorni della Vecchia, le acchiature in ogni angolo”… Vengono in mente le Lezioni americane di Calvino quando l’autore afferma: ”Se in un’epoca della mia attività letteraria sono stato attratto dai folktales, dai fairytales, non è stato per fedeltà a una tradizione etnica (dato che le mie radici sono in un’Italia del tutto moderna e cosmopolita) né per nostalgia delle letture infantili (… ) ma per interesse stilistico e strutturale, per l’economia, il ritmo, la logica essenziale con cui sono raccontate”. 
Non c’è nostalgia regressiva, nelle parole di Verri, e tantomeno il gusto “antiquario” per una vagheggiata età dell’oro o per i falsi miti dell’autenticità e dell’origine. “Dal Salento “occorre guardare altrove – dice Antonio Prete in una recente intervista – oppure occorre guardare nel cuore del Salento, saltando stereotipi, convenzioni, cogliendo un’anima non fissata in formulette, in rituali turistici. Occorre scavare dentro di sé e avere uno sguardo capace di evocare quel che non è offerto alla vista, al consumo degli occhi”. E in questo balzo in avanti la “tradizione” non è una palla al piede, ma un’opportunità per immaginare un futuro più ricco e creativo. In questo senso (ma non solo), Verri è stato un visionario precursore di quel “rinascimento salentino” che oggi si riverbera nella musica, nel cinema, nella letteratura, nelle arti in genere. Verri s’inventa persino parole nuove, tanto da accludere al testo un Dizionarietto dei termini magici, nuovi o non comuni. A scorrere questo immaginifico vocabolario del nulla, si scoprono parole “morte” richiamate in vita per l’occasione, altre che denotano una certa competenza demologica, (“Contra: canzoni da contrasto amoroso. Le sentiamo cantare ancora a Borgagne (Le) da due vecchie contadine”); altre ancora che sono pura invenzione. E si scopre che i “Tao sono folletti dell’aria: “c’è dentro il salentino mao, il veneto bao, tanto altro”. Come non pensare a Il Narratore di Benjamin, un memorabile saggio degli anni Trenta, che insiste sull’idea della narrazione orale, esperienzale, che appartiene alla cultura popolare, contrapposta al romanzo come espressione dell’epopea borghese. L’idea, di certo non estranea a Verri, che nelle culture tradizionali l’apprendimento e la trasmissione dei saperi passano attraverso lo sguardo, l’ascolto e la parola. Attraverso il potere “magico” dell’affabulazione tradizionale. La madre, verrebbe da dire, di tutte le narrazioni. 
Scrive Benjamin: “L’arte di narrare volge al tramonto perché viene meno il lato epico della verità, la saggezza (…) la narrazione è stata espulsa dall’ambito del discorso vivo e insieme fa percepire una nuova bellezza in ciò che svanisce”. Verri sembra quasi fargli eco: “Mi è stato insegnato – ma poi l’ho sperimentato da me – che vivendo, stando quanto più possibile lontano dal nulla, non si può fare a meno della saggezza e del piacere curioso dei proverbi, dei mille proverbi che dalla terra nascono, che i proverbi aprono al mondo, a variegate realtà, che niente c’è di tanto misterioso, di tanto affascinante, di tanto poetico, quanto un proverbio che si dipana al punto giusto, al posto giusto; che attraverso i proverbi è tanto magica, tanto plastica l’interpretazione del mondo che niente, nessuna cosa sulla terra, mi è parsa, mi pare così naturale, così saggia, così strapiena di candore...”. E viene da pensare, ancora, a Vincenzo Consolo che in una delle sue ultime interviste argomentava: ”Non c’è più la cultura popolare ci sono solo delle persone che cercano di continuare questa tradizione. E poi ci sono gli scrittori che lavorano sulla memoria, perché la scrittura senza memoria è una scrittura orizzontale, senza nessuna profondità”. Forse anche per questo la scrittura di Verri era una scrittura verticale, addirittura vertiginosa. Perché poggiava su radici solide e profonde. L’esatto contrario, insomma, di una scrittura orizzontale.

*da “Marsia” , Rivista di poesia – Anno III, N.1 Dicembre 2013. Numero speciale dal titolo Le pietre sopra le ali. Vent’anni senza Antonio Verri a cura di Salvatore Francesco Lattarulo, Progedit, 2013, pp.116, euro 15,00. Il fascicolo contiene contributi di Carlo Alberto Augieri, Fernando Bevilacqua, Rino Bizzarro, Nadia Cavalera, Cosimo Colazzo, Salvatore Colazzo, Stefano Donno, Antonio Errico, Vittore Fiore, Eugenio Imbriani, Salvatore Francesco Lattarulo, Mauro Marino, Maurizio Nocera, Fabio Tolledi

martedì 28 gennaio 2014

Al Caffè Greco

La copertina del numero del Caffè Greco riletto da Alessandra Peluso

“CAFFÈ GRECO”
FASCICOLO UNICO DI LETTERATURA, OTTOBRE, LECCE 1980.

Una rilettura di Alessandra Peluso

Ho un tesoro fra le mani, non  posso non lasciarlo parlare, gridare, la poesia militante, proletaria di Antonio Verri.
Il fascicolo unico di letteratura “Caffè Greco” curato da Antonio Verri ospita contributi di Rina Durante, Lucio Conversano, Pino Maggiore, Roberta Pappadà, Giuseppe Ianne. Nomi sconosciuti ai più, anche alla sottoscritta che legge e rilegge affascinata e incantata nei confronti di un passato che ha dato origini alla poesia salentina, al Sud quello di dolore, guerre, lotta di classe, sofferenza, aridità - un Sud che voleva a tutti i costi cambiare e farsi amare.
Il Sud - il nostro Sud -  deriso dimenticato non certo dalla penna di Antonio Verri.
Si rabbrividisce a leggere i passi del “Caffè Greco”, sembra che i versi parlino, che ogni parola abbia un eco che ancora oggi va ascoltato.
Scrive Rina Durante ai giovani del Caffè Greco, a noi giovani: «Della poesia ho un'idea ecologica: esiste la comunità (Melendugno o New York, non fa differenza), fatta di gente che zappa, che fabbrica, che compra, che vende, che fa poesia. Fare il poeta è un mestiere. Chi lo sa fare bene è un poeta collettivo. Fare il poeta, (ma anche lo scrittore), è faticoso, perché è una grande fatica trovare la verità di tutti, ma ancora di più dirla a tutti. In un mondo che sempre più rinuncia al proprio volto, che fa di tutto per mistificarsi che tende all'appiattimento e al livellamento universale fare il mestiere di poeta è sempre più difficile». Allora - siamo negli anni '80 come adesso negli anni del secondo millennio - la  cultura tende ad essere sempre di più livellata, sterile, strumentalizzata a fini utilitaristici dove l'unico scopo è quello del “divertissiment”, distrarre.
La poesia, la scrittura che tesse e ha tessuto la storia del Salento, del Sud è invece quella sofferta, vissuta, di lotta e conquista, di dolore verso una terra che alle volte sembrava indifferente alle grida di dolore.
Nonostante tutto c'è stato chi ha creduto nel potere della poesia, della conoscenza e aleggia fortunatamente sulle nostre teste, veglia sulle nefandezze, sulla nullità italiana.
Molti hanno creduto che essere poeti significava offrire versi per difendere il proletariato, i lavoratori, chi si sporcava le mani con la terra. Ed oggi a favore di chi o cosa si dovrebbe scrivere? Non esiste una politica, non esistono ideologie, non esistono coloro che difendono i diritti, i valori universali, la propria patria. O se ci sono non si vedono. Esistono però i poeti che scrivono la vita e cercano in qualche modo di dare speranza. «Come? Ora non conosci la conosci la vita neanche tu? … La tua composizione di sangue e di ossa è la pietra / focaia che non incendia più neanche ipoteticamente. / É cambiata la tua botte visualistica? / Hai compresso senza scoppio e l'aderenza / è pellurica». (Lucio Conversano).
Si leggono versi che parlano degli abitanti di un Sud emigrante, che descrivono la terra calda, l'odore buono del pane che brucia, l'aspro arancio dell'orto. «E guarda muto / nell'infinito / mare d'aria / alla ricerca / degli affetti / che non moriranno / mai. / E soffrendo non s'appaga / e vive / ricordi / lontani / sempre vicini / giustizia sociale / chiedendo / senza / pietà».
C'è la sperimentazione di fare poesia che appaia diversa nella forma con i dovuti spazi, i silenzi, ai quali solo il lettore ha il potere di dar forma, di darne un senso. (Pino Maggiore).
Ci sono molte altre voci nel fascicolo “Caffè greco” e c'è la bellezza disincantata di una nota di Antonio Verri scritta il 12 ottobre del 1980 che si scusa di certe imperfezioni, refusi o deficienze in sede di correzione di bozze. Che meraviglia!
Come si fa - mi chiedo - a dare retta alle imperfezioni, a tutte queste formalità descritte dal nostro Antonio quando - ammesso che ci siano - sono solo distrazioni che non possiamo permetterci di fronte a materia infuocata, a parole che parlano, ti arrivano, bruciano come magma incandescente, sono un senso contro il quale nessun errore ortografico ha valore e significato di esistere. Forse adesso si dà più retta alla forma perché la sostanza manca, e ciò che si vuole dire non ha forse un potere, un'energia così devastante da confondere e credere all'esserci, a ciò che è e non ciò che si vuole dimostrare tra orpelli e maschere varie.
La poesia è vita: necessità, esigenza, idee, sensazioni, emozioni ed è di questo che occorre parlare, di vita e viverla ognuno dando la propria testimonianza e il contributo perché tante morti di poeti (mi rivolgo anche alle donne) salentini e non, non siano state inutili. Perché le loro morti siano da monito per lottare con la penna, o con i propri strumenti a rinnovarsi o meglio a ritornare per fare una poesia militante che distrugga le ragnatele dell'ipocrisia e della menzogna, del perbenismo, che racconti la verità e che sia ascoltata perché cambiare si può, deve esserci la speranza non disillusa, ma sincera utile a dar forza e coraggio alla vita che - nonostante tutto - va vissuta.  

mercoledì 15 gennaio 2014

Omaggio al poeta del Declaro

Antonio Verri, di una certa letteratura militante
Al Teatro Paisello, giovedì 16 gennaio 2014, dalle 19.00

Partecipano: Francesco Aprile, Rossano Astremo, Aldo Augieri, Carlo Alberto Augieri, Fernando Bevilacqua, Salvatore Colazzo, Aldo D'Antico, Rocco De Santis, Stefano Donno, Antonio Errico, Simone Franco, Simone Giorgino, Francesco Salvatore Lattarulo, Mauro Marino, Maurizio Nocera, Luciano Pagano, Piero Rapanà, Fabio Tolledi e...


Antonio Verri al telefono in una fotografia di Fernando Bevilacqua
…Se qualcosa di tutto questo ti accadesse/ o se qualcuno ti parlasse di un modo che ormai/ gira sul niente, ti prego, stringi i pugni/ mangiati il cuore parla delle ragazze di crema/dei loro fiori in petto, delle melodie di velluto/dei bazar in piazza a Martano/ caccia le unghie e fai capire che volevamo/ fare della poesia di lotta/…/oppure di soltanto che non è da tutti rubare al cielo/i suoi segreti. Non dovercene spiegare le ragioni
Sono parole di Antonio Verri, poeta, scrittore, operatore culturale, scomparso drammaticamente
nel maggio del ’93.
E Antonio Verri, di un certo sguardo sulla letteratura militante è il titolo della serata che Astragali Teatro in collaborazione con il Fondo Verri propone il 16 di gennaio, Teatro Paisiello, ore 19, all’interno del suo progetto di Residenza Artistica Teatri Abitati, sostenuta da Regione Puglia, Teatro Pubblico Pugliese e Comune di Lecce.
Fabio Tolledi, regista e direttore artistico di Astràgali Teatro, insieme a Mauro Marino, artista visuale, promotore del Fondo Verri, e a quanti hanno conosciuto, amato, e studiato lo scrittore, tracceranno il profilo di Antonio Verri, poeta, autore complesso, operatore culturale che con la sua militanza poetica ha costruito una rete di scambi, di incontri, che dal Salento portavano all’Europa. Antonio Verri, e il Declaro, libro infinito, i suoi progetti di rivista, le sue relazioni con poeti e scrittori europei, è riuscito, insieme a quella “stupenda generazione”, ad “abbattere i muretti a secco” e a sottolineare l’importanza dell’impegno nella letteratura e nella vita culturale.
La domanda che muove della sua esperienza è tuttora urgente: cosa significa fare cultura in questo territorio e con quale proiezione? E, ancora, quale il ruolo del poeta oggi?
Difficili da disgiungere dalle sue azioni, i suoi testi verranno letti durante la serata, in un intreccio di memorie e parole, di racconti di vita spesa insieme e quegli azzardi di cui la sua scrittura si nutriva.

sabato 11 gennaio 2014

Antonio Verri per Franco Corlianò per una mostra del 1983

Il pieghevole che presenta la mostra

La nota di Antonio Verri

Una facciata del pieghevole con il luogo e la data della mostra

Da Franco Corlianò a Verriana

"Certo di farti piacere, ti invio questa presentazione che Antonio Verri (mio caro compagno di banco nella Scuola Media) scrisse per una mia mostra di pittuta dei primi anni '80. Ti saluto"

N.B. Per meglio leggere i documenti cliccare sopra per ingrandire