lunedì 29 luglio 2013

Salvatore Toma, A great poet - Un articolo di Giusy Casciaro su 20centesimi

Sotto il sole caldo di luglio, non è difficile scorgere qualcosa che parla di lui. Ogni angolo, ogni stradina, nel piccolo borgo di Maglie, racconta storie e aneddoti legati a “quel matto”, a quel grande poeta che è stato Salvatore Toma.
Salvatore Toma a great poet: quegli adesivi che s’era fatto fare con cura e aveva sparso per tutta la sua cittadina: sugli angoli dei palazzi, nei bar, sui pali della luce, sulle finestre delle case antiche, sulla Maggiolino dell’allora sindaco Bernardo Pacella. Oggi, sulla vernice scrostata di una vecchia Cinquecento, quella frase è ancora intatta e porta con sé il sapore di un tempo. E lontano dai libri, dalle pagine ingiallite dei suoi manoscritti, dagli appunti degli addetti al settore, dai circoli letterari e dalla ricerca documentaristica, ci si ritrova catapultati in una realtà quasi onirica, una terra poetica, fatta di luoghi, piccoli oggetti e testimonianze che tracciano una mappa, raccontano storie e fanno conoscere da vicino chi è stato veramente l’uomo e il poeta...

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giovedì 18 luglio 2013

Antonio Verri e il Mocambo a Sternatia

Antonio, ultimo a destra e un gruppo di amici al Mocambo in una fotografia di Fernando Bevilacqua

di Maurizio NOCERA
Cosa volete mangiare stasera?

È sempre 
come stare 
tra vecchi amici, 
una sorta di cordata legata dalla storia della vita, nella sofferenza 
di sapersi sperduti 
in mezzo a due mari.

Carmela Sabato è una donna minuta, ben proporzionata, i muscoli e la carne giustapposti dove madre natura ritiene che lì debbano stare. Ha sempre, d’estate e d’inverno, dei vestitini che la fanno apparire un po’ magra. Il viso, poi, è sempre tirato al bello. Appena appena incipriato e le labbra quasi sempre attraversate da un’ombra fugace di rossetto. Non si muove a scatti, la signora del fuoco, ma fluisce sul pavimento senza pesantezze, senza rumori.
Il luogo in cui il marito ha destinato Carmela, nell’ineludibile divisione dei compiti familiari all’interno dell’osteria, è quello del camino, quasi sempre acceso su di un lato del grande bancone laminato e lucido come un paio di scarpe appena uscite dal calzolaio. Lo spazio del fuoco e delle braci sempre ardenti è piccolo per i movimenti di una qualsiasi persona. Però, come per incanto, Carmela Sabato riesce sempre a dominarlo e a gestirselo con grande perizia. Le sue mani, veloci e dalla presa ferrea, sistemano carboni, spianano la brace e, continuamente, tolgono o rivoltano grosse graticole di arrosti.
Si muove con leggerezza la donna del fuoco. Spesso, nessuno si accorge della sua presenza. Ad eccezione dell’uomo dei curli, Antonio L. Verri, che tutte le volte, appena entrato nell’osteria, ancora prima di salutare l’oste grande e buono, rivolge le sue attenzioni proprio alla minuta Carmela accarezzandola quasi con la sua voce di gufo appena svegliato una mattina di un triste autunno salentino.

«Ciao Carmela, come va la vita?».

«Bene Antonio. Tiriamo avanti. Qualche problema ce l’abbiamo pure noi. Non è molto che Vito ha deciso di aprire questo locale a Sternatia. Per cui, c’è tanto da fare, e la clientela non è ancora abbastanza folta. Comunque speriamo bene».

Carmela aggiunge legna d’olivo antico al fuoco che arde baldanzoso al centro del camino.
Vito Maniglio, l’oste grande e buono, quasi sempre lo trovi dietro il bancone con uno strofinaccio in mano che pulisce e ripulisce il piano d’appoggio. Saluta educatamente, poi, con fare meccanico, ma lo fa per nascondere la prima timidezza dell’incontro, passa e ripassa il tovagliolo nei pressi del posto del bancone che tu occupi, a dimostrazione che lì quel posto è ben pulito, che ti puoi fidare, che puoi stare a tuo agio.
L’oste è un uomo indubbiamente bello, una sorta di messapo antico dal corpo slanciato verso il cielo, le mani forti e i muscoli ben torniti sulle braccia. È evidente che è un uomo che non ha paura di affrontare e vincere qualsiasi lotta tra uomo e uomo, uomini, beninteso, che si intendono di vini del Salento.
L’uomo dei curli, Antonio L. Verri, che a sua volta è un uomo grande e forte, questo lo sa, per cui cerca di stare a debita distanza dalle spesse mani di questo oste sternatese, che però ha sempre il sorriso sulle labbra.

«Ciao Antonio, cosa ti do da bere. Il solito rosso?».

«Sì, il solito!».

«Quanti siete questa sera, e dove vuoi che ti aggiustiamo tavola?».

«Sul retro, no?, come sempre! Saremo quattro o cinque. Verrà il Bevilacqua da Muro, Aldo Bello e sua moglie Ada, Giuseppe Tondi e Giovanni Pranzo Zaccaria. Poi si vedrà se qualcun altro si aggiungerà alla compagnia».

Vito Maniglio poggia sul bancone un quartino e lo riempie di un rosso sangue vivo.

«Guarda Verri, questo vino proviene dalle uve delle campagne di Magliano. Un vino scelto personalmente da Cesarino De Santis. È stato stompato e curato alla vecchia maniera, per cui conserva tutt’interi i profumi e i sapori di un tempo. Assaggialo e dammi un parere».

L’uomo dei curli, Antonio L. Verri, si porta il bicchiere alle labbra e sorseggia il vino. Si sporca un po’ la barba, che spinosa gli giunge quasi fin dentro alla bocca da un lato sdentata. Si passa il dorso della mano sulle labbra coperte dai peli della barba e risponde:
«Sì, è vero. È proprio un buon vino. Ma tu dimmi, perché hai chiamato questo posto Mocambo?».

«Verri, forse non te l’ho ancora raccontata la mia storia, ma verrà il giorno in cui lo farò. Sappi comunque che Mocambo è un nome che io ho sentito e risentito nei lunghi anni dell’emigrazione in Svizzera, là dove, frequentandomi con altri lavoratori, soprattutto di lingua spagnola, favoleggiavamo di questo luogo di gioia, di vino e di buon mangiare. Da qui mi è nata l’idea di dare a questa locanda quel nome. Spero che mi sia di auspicio».

«Lo sarà di certo. Perché vedi, io amo questo posto. Amo Sternatia e la sua storia. C’ho fatto un libro qui. Per la verità il mio primo libro, quello a firma di Cesare De Santis con introduzione e cura mie. Il buon Cesare: un vulcano di insofferenza, uno che aveva molto sofferto, ma che faceva bizze incredibili. Furono mesi molto belli con lui e i suoi proverbi e i suoi racconti. Una miniera grica tutta nei cassetti. Il libro si finì subito. Millecinquecento copie. De Santis si faceva, con su una panca, tutte le feste de l’“Unità” e dell’“Avanti”. Litigava con tutti, anche con me, anche col sindaco che aveva speso un sacco di soldi. È stato quello l’unico libro che non mi è costato. Povero Cesare, gli perdonavo tutto. Era espressione del mondo magico contadino. E lui ricominciava».

«Conosco questo libro, Verri. È proprio attraverso esso che ho saputo di te. E, per la verità, leggendolo, sentivo come se ti avessi conosciuto da sempre. Forse tu non lo rammenti più, ma ci fu una sera, il 28 novembre 1988, cioè appena 7 giorni dopo l’apertura del locale, che tu arrivasti in osteria con alcuni tuoi amici per un incontro letterario. Con te c’era Fernando Bevilacqua, il greco Costas Valetas, Gigi Specchia, Giuseppe Tarantino, qualche altro amico del luogo, un amministratore del Comune di nome Spagna. Alla fine della serata, che io e mia moglie avevamo curato fin nei minimi particolari affinché sulla tavola non mancasse nulla, mi diceste che avevate mangiato e bevuto bene. Ancora oggi sono orgoglioso di quella serata. Orgoglioso di me, di Carmela, ma anche della nostra amicizia, Verri, nata in quel momento come per incanto. Di quell’indimenticabile incontro c’è anche una bella foto del Bevilacqua.
Tu, quella sera, non ti accorgesti di nulla, ma io non feci altro che guardarti e ammirarti. Per me eri quello che aveva ridato vita alle mie speranze di ex emigrante, che avevi avuto il coraggio di pubblicare un libro con la mia lingua dentro: il grico della Grecìa Salentina. E poi avevo conosciuto personalmente Cesarino De Santis, e quel suo libro, da te pubblicato, Col tempo e con la paglia (Storie rimate e no di un poeta e di un paese), me lo sono letto e riletto chissà quante volte. In un certo senso è il mio breviario. La sua copertina, la ricordi Verri?, tutta bianca con le scritte color seppia, si è oggi un po’ ingiallita, però tiene ancora. Tu e Cesare dedicaste quel libro a Gerhard Rohlfs, il grande studioso tedesco dei dialetti salentini, e a Stephanos Lambrinos, anch’egli docente presso l’università di Tübingen, e infine alla cara gente di Sternatia. Che libro, Verri! Che gran libro! Con tutte quelle lettere di Rohlfs e Lambrinos. Chi poteva mai sospettare che Cesarino De Santis, un contadino, uno come noi, avesse tutta quella corrispondenza con personaggi simili. Qui a Sternatia rimanemmo tutti a bocca aperta. Per la verità ancora lo siamo. Verri, tu e i tuoi amici cosa volete mangiare questa sera?».
..
«Mah!, fai un po’ tu. Gli amici che vengono sono un po’ di palato buono. Per cui portaci un po’ di cose nostre, melanzane, lampagioni, peperoni sott’olio, un po’ di alicette marinate, qualche cipollina all’aceto, un po’ di olive nere salate, un po’ di scapece se te la trovi, un po’ di arrosti della brava Carmela, e infine il supratavola. Ovviamente il tutto innaffiato di rosso, che non deve mai mancare».

«Va bene, va bene. Vedrò di fare del mio meglio, per come potrò».

Intanto Gianni e Rocco De Santis, cari figli del saggio contadino grico, suonano e cantano canzoni griche al ritmo dolcesalentino.