giovedì 27 giugno 2013

Di Antonio Verri e di Giovanni Giancane

 
Antonio L. Verri in una fotografia di Fernando Bevilacqua virata in giallo-rosso

Incontro con l'uomo del fuoco
di Maurizio Nocera

Probabilmente fu durante gli anni ‘80 che avvenne il primo incontro tra Antonio L. Verri – «diletto figlio dalle mani d’oro», diceva mamma Filumena – e Giovanni Giancane, l’artista agricoltore di Monteroni, noto per la costruzione dei gioielli dell’alchimia raku (preziosissime ceramiche, cammei d’argilla, “pietre” luminose, il cui risultato si ottiene grazie ad una laboriosa ricerca di laboratorio. Raku – è parola giapponese del 1500 e proviene dal cognome del creatore della tecnica – che letteralmente significa «gioire il giorno», vivere cioè in armonia con l’umanità e la natura, come accadeva al tempo degli antichi samurai).
Giancane è conosciuto anche per la sua capacità di dominare le fiamme. Per questo molti lo chiamano «l’Uomo del fuoco del Salento». Qualche anno fa il regista Piero Cannizzaro gli ha dedicato un interessantissimo cortometraggio ancora oggi mandato in onda dal programma Geo e Geo di Rai3.  
Ma torniamo all’incontro tra i due, il cui tramite sicuramente fu il comune amico Antonio Toma, purtroppo scomparso recentemente, e meglio conosciuto a Lecce come “il già costruttore di grandi palazzi” che, a quell’epoca viveva, quasi come un principe del verde, in un bosco di pini e di acacie sulla strada che da Lecce porta ad Arnesano.  
Il percorso che io e Verri facevamo per raggiungere Monteroni era quello di sempre. Anche quella in fondo era la nostra strada del cuore, quella infiorata di margheritoni gialli e di papaveri rossi; la strada avvolta dai profumi dei caprifichi e dell’odore acre del miglio stompato. Era, insomma, quella strada da millenni calpestata dai piedi dei nostri padri messapi, appena appena battuta da quelli, leggeri come le piume, delle nostre madri curve sulla storia. Era la via Malemnia, quella che Badisco, cioè dal centro del nostro sud del sud del mondo, sale su verso l’indefinito, verso l’ignoto, verso quello che per tutti noi terragni salentini appare essere l’oscurità del nord. I nord del mondo, anch’essi belli e affascinanti, a noi del sud appaiono sempre indecifrabili, spesso misteriosi. Anche per questo gli amiamo. E il Verri era grande amatore di certi nord che amorevolmente lo accoglievano. Penso a Yverdon, sulle Alpi svizzere.
Non posso scrivere che quel giorno che andammo da Giancane non fosse radioso. Perché lo era. Qualcuno ricorda che forse era primavera, il tempo che dischiude gli amori: quelli delle piante, quelli degli uomini e delle donne. Partimmo da Caprarica di Lecce che era ancora mattino: né troppo presto né troppo tardi; giusto quel tempo in cui, al Verri, appena dopo aver bevuto il suo secondo caffè della giornata, quello di mamma Filumena, e dopo essersi seduto al posto di comando nella un po’ tanto sgangherata FiatUno, alla cui guida c’era chi qui scrive, cominciasse a fumare una delle sue solite “Ms blu”. Fumava e faceva progetti. Era il tempo in cui andava pensando alla sua leggendaria città di Guisnes. Un giorno se l’immaginava lagunare, un altro collinare, un altro ancora sprofondata in una foresta. Alla fine però il suo modello preferito ritornava a essere Gardigliano di Sopra, il villaggio agricolo al centro del Basso Salento, a quel tempo abbandonato ai latrati dei cani e agli amplessi nascosti di soldati in libera uscita con fidanzatine speranzose di ammogliarsi oppure con languide mogli pur sempre insoddisfatte dei magli rattrappiti di mariti frustrati dagli anni.
A Cavallino, al centro dell’antica Sybar messapica, ci fermavamo presso il busto bronzeo del duchino Sigismondo Castromediano. A lui, Antonio L. Verri faceva una particolarissima raccomandazione: cercare di stare un po’ più con gli occhi aperti – ciò non doveva proprio costargli troppo, in quanto erano di bronzo – e quindi tutelare sulla nostra povera storia di messapi senza avvenire.
A Lecce, invece, ci fermavamo appena qualche minuto, alla Biblioteca provinciale “Nicola Bernardini”, giusto quel tanto per consegnare al buon “vecchio” bibliotecario, Enzo Panareo, le prime bozze del suo libro che, successivamente, avrebbe visto la luce col titolo Anni estivi, edito dal Centro culturale “Pensionante de’ Saraceni”.
Partendo da Lecce, per raggiungere Monteroni attraversavamo l’area archeologica dell’antica Rudiae, altra roccaforte messapica, che aveva visto dare i natali a Quinto Ennio, il primo dei nostri grandi poeti latini.
Dalla provinciale che da Lecce porta ad Arnesano sono molte le viuzze rudiane che s’immergono dirigendosi nell’ubertosa Valle della Cupa, una valle questa più ideale che reale, perché il Salento non ha montagne. Tutto al più ha dei rilievi alti appena una decina di metri sul livello del mare. Però la terra di questa Valle è molto buona, profonda, altamente coltivabile, quasi sempre umida, che dà molti frutti e molti altri prodotti agricoli durante il corso dell’intero anno. Comunque, com’è come non è, per raggiungere la nostra meta, sterzavamo in una di queste stradine, ancora oggi caratterizzate dalla tortuosità dei calpestii messapi.
E qui lo scenario era sempre più meraviglioso per Verri: amava i muretti a secco, in questi luoghi mai troppo alti; e le grandi masserie abbandonate ma ancora avvolte dal fascino di streghe baciate dalla luna piena; e le barocche ville signorili, un tempo abitate, qualcuna ancora oggi per la verità, dai potenti della Lecce aristocratica; e le pajare a cono tronco, pulite ed erette al centro di campi coltivati a vigneto con spalliera; e le rare specchie basse, anch’esse pulitissime, opera di laboriosi contadini, spesso anziani; infine, i cumuli ricoperti di innocenti erbe selvatiche ma che nascondevano i tesori omerici di questi luoghi, le rovine della città fondata dagli elleni di Rodi. Guardandoli, Antonio esclamava, più rivolto a se stesso che al solito chauffeur: «Ma che Cristo fanno i nostri professori archeologi dell’università del Salento? Se ne vanno a scavare rovine in Estremo Oriente lasciando qui tutto ancora sepolto. Ma questa non sarebbe forse un’altra delle occasioni di sviluppo per la nostra terra?».
Non c’erano risposte a queste affermazioni, anche perché chi ascoltava non ne sapeva dare.

sabato 22 giugno 2013

Antonio, On Board e il tempo di Ayse Yazicioglu

Antonio Verri s'arrende in una fotografia di Fernando Bevilacqua virata in rosso-arancio
On Board e l'amica turca
di Maurizio Nocera

Bellissima. Turca. Esile come un giunco. Resistente a qualsiasi impeto. Anche amoroso. I capelli un ebano d’Africa notturna. Gli occhi da volpe delle nevi. Stupenda come una statua d’alabastro.
Solo il Verri poteva scoprirla negli anfratti più nascosti del Salento, il giorno che lei passò da questa parti. Sto scrivendo di Ayse Yazicioglu e il tempo, allora, era quello di «On Board», il foglio-rivista che Giovanni Pranzo Zaccaria finanziò giustificandosi di pubblicarlo perché – disse – di conoscere già da alcuni anni Antonio L. Verri, e con lui voleva dare delle risposte ai molti quesiti economico-finanziari posti dai pugliesi. In quell’occasione Pranzo Zaccaria (all’epoca presidente del Centro Regionale Servizi) disse pure di conoscere abbastanza bene le straordinarie qualità umane e professionali del poeta.
Antonio L. Verri aveva già al suo attivo la pubblicazione di giornali culturali come «Caffè Greco», «Pensionante de’ Saraceni», «Quotidiano dei Poeti», più numerose altre fanzine e libri, tutti pubblicati sotto l’egida del Centro culturale «Pensionante de’ Saraceni», del quale era l’anima vera.
Il primo numero di «On Board», mensile del C.R.S., fu il numero zero (febbraio 1990), la cui vita tipografica proseguì per ancora altri tre numeri, tutti corposi e leggibilissimi, nonostante che si trattasse di un foglio-rivista che spaziava dai temi di interesse economico-finanziario a quelli letterari e di varia umanità. Verri progettò graficamente il foglio e fu il direttore editoriale, Aldo Bello il direttore responsabile. I collaboratori redazionali furono: Georges Astalos (Parigi), Fernando Bevilacqua, Gina Bonavoglia, Giuseppe Cazzolla (Bari), Salvatore Colazzo, Roberto Conte, Giorgio Cretì, Ada Donno, Antonio Errico, Liuni Frattasi, Elio Fumai, Alberto Frugis, Claude Longo, Vito Maurogiovanni (Bari), Maurizio Nocera, Ada Provenzano (Roma), Fabrio Tolledi, Ayse Yazicioglu, Nello Wrona. Segretaria di redazione: Daniela Dòdaro. Amministrazione e pubblicità: Antonio Guariglia. Responsabile delle immagini: Fernando Bevilacqua. Stampa: TorGraf di Galatina. La direzione, la redazione e l’amministrazione: Lecce, piazza Mazzini, 4.
Di questa avventura giornalistica, lo stesso Verri scrisse: «“On Board”, un giornale di settore? Un bollettino? No, di certo. Molta ospitalità, questo sì. La più varia. Non per antologizzare, ma per cercare di capire e di superare l’incomprensibile di certi disagi, e ritardi e pregiudizi e mostruosità ambientali... Un giornale aperto, allora, che cede facilmente i suoi spazi (è questo il senso del non voler far quadrato se non con il lettore e l’operatore), che non vuol cambiare il mondo, che non ha pretese di ridurre il tutto ad una qualsiasi unità di misura ma che anzi, all’occorrenza, sa sposare molteplicità ed intraducibilità».
Ayse Yazicioglu scrisse su questo giornale due “pezzi”. Nel primo foglio scrisse Il montone nero (I, p. 31); nel secondo Il farfallone e la femmina ragno (II, p. 27). In questo stesso foglio Verri pubblicò un bellissimo disegno di Ayse, intitolato L'Urlo (II, p. 34); altri due suoi disegni, sempre ispirati alla cultura del ragno, furono pubblicai sul foglio n. IV (p. 6 e p. 37).
Il montone nero è una favola turca che narra di un giovane pastore al servizio di un ricco e crudele signore. Il pastorello sapeva così bene guidare le greggi e suonare divinamente il flauto tanto da far innamorare la figlia del signore. Del suo canto si innamorò persino il montone nero del suo gregge. Quando il ricco e crudele signore dei greggi si accorse dell’amore della figlia per il pastorello si adirò a tal punto da negarla come sposa al giovane. Tuttavia, alla fine, il crudele dovette soccombere quando si accorse che il pastorello fu in grado di superare tutte le prove a cui ostinatamente lo sottopose, fra cui quella di «dare del sale al gregge per tre giorni, quindi portare il gregge verso il fiume e poi farlo tornare indietro facendo in modo che nessuna pecora toccasse l’acqua». Gara che il pastorello vinse grazie al suono del suo flauto e grazie anche al montone nero che, a fine gara, scomparve per non essere mai più visto.
Anche l’altro “pezzo” di Ayse è una favola-metafora. L’intero titolo è: C’era una volta il farfallone e la femmina ragno, e narra di un farfallone dalle grandi ali in cui erano riposte tutte le sue speranze. Poi però la vita, vivendola, si complica. Accadde così che il farfallone cadde, attratto dalla luminosità di alcune perline di rugiada, nella rete di una ragna, che lo voleva tenere tutto per sé. E questo significò la perdita della libertà del farfallone. Ayse scrive qui un passo molto importante. Eccolo: «Lei [la ragna] faceva di tutto per tenere sempre occupato il suo bel farfallone, faceva di tutto perché lui, pur restando sempre nella sua dolce rete, passasse bene il suo tempo e non si accorgesse di niente… ma la libertà è ancora cosa che più si perde e più diventa desiderabile./ Io non so come e se potrà finire questa favola. Posso solo dire che tutto dipenderà dal farfallone, da quanta voglia di libertà è ancora in lui, o se ancora vuol tornare a volare./ Potrebbe tentare, dite? Volare… volare… Ci sono ancora mille purissimi colori, c’è il sole…».
Ayse, la cara Ayse. E quella sua città, Istanbul, dove alla fine ritornò a vivere con marito leccese e figli. Quando Antonio L. Verrì spiccò l’ultimo suo volo della vita nell’alto dei cieli, Ayse, commossa, scrisse a me ma per consegnare al Verri: «Istanbul 1995// Non è giusto, caro Antonio, non è giusto che sparisci così a lungo.../ Scrivere non è di me! Le parole mi sono straniere, disubbidienti, inafferrabili./ Mi manca la tua voce che, togliendomi l'imbarazzo, mi suggerisci, rendendo visibile ciò che io voglio intendere tramite le parole./ Mi manca il tuo tocco magico del Poeta, come guida nel mio "naviglio"./ Ho ancora tante domande.../ Come facevi a uscire dal vortice dei sogni, dove le immagini, i ricordi, le esperienze, linee-colori-forme giravano vertiginosamente, svanendo a volte, poi, ricomponendo, dove, io da artista disperata, cerco di captare l'attimo fuggente./ E perché io, ancora, non ho (il) coraggio a vagare ad occhi nudi della mente, senza (quei) maledetti occhiali della ragione?/ E poi, coma facevi ad essere sempre affezionato e curare i tuoi amici, come autentici e meravigliosi boccioli, incoraggiandoli, con amore e delicatezza; poi aspettare, fiducioso e paziente, la loro fioritura?/ Come facevi a vedere sempre ciò che è bello in loro, ignorando le spine?/ Che privilegio, fare parte del tuo giardino.../ La tua "Turca sognante" continua a sognare ma manca "il suono"// Ayse».
Quando Ayse mi scrisse questa lettera non era ancora pienamente convinta dell’accaduto. Le risposi e le dissi tutto ciò che noi ormai sappiamo già. Mi telefonò da Istanbul. A lungo. A lungo pianse. Terminò con la voce tremula singhiozzando “Antonio, Antonio!

giovedì 20 giugno 2013

L'Antonio L. Verri di Ennio Bonea

Antonio Verri fotografato da Fernando Bevilacqua viraggio in verde-giallo


Antonio e il Professore
a cura di Maurizio Nocera

Il 14 aprile 1994, Ennio Bonea (Taranto, 6 ottobre 1924 – Lecce, 12 dicembre 2006), fondatore della «Tribuna del Salento» e del «Quotidiano di Lecce», che noi abbiamo chiamato sempre il professore (per decenni insegnò Letteratura italiana moderna e contemporanea all'Università di Lecce), mi scrive la lettera seguente: «Caro Maurizio,/ ho avuto la plaquette, finalmente. A parte i refusi, ho letto d'un fiato, senza darmi una sosta di riflessione, questa incalzante e divorante, piccola-grande tragedia, ritrovandomi alla fine con un groppo alla gola e dinanzi agli occhi la figura di Antonio, qui, nel mio studio di fronte a me, così diverso da quello istintivo e spontaneo delle tue pagine. Ho ricavato le ultime giornate di un Antonio solo in parte da me conosciuto, ho appreso il suo presentimento di morte, la sua ansia di vita, il suo creativo disordine, i suoi affetti. Ho visto la sua tragica, vera, perché vista da lontano, straziante fine./ È uno splendido documento da trasmettere ai salentini e agli amici di Antonio sparsi nel mondo. È possibile farlo per il 9 maggio, nella scadenza annuale della sua scomparsa?/ Grazie, caro Maurizio, per avere saputo tracciare la più toccante immagine umana di un amico amato da chi lo frequentava e di un poeta sconcertante ma seducente per chi lo leggeva. Affettuosamente,/ Ennio Bonea».
La lettera di Bonea si riferisce al mio poemetto Antonio Antonio! (o dell’Amicizia), che in quell’occasione egli lesse in una plaquette manoscritta e che successivamente vide la luce una prima volta nel 1998 in un grosso volume – Antonio Verri Fabbricante d’Armonia – curato da chi qui scrive più Luigi Chiriatti e Fernando Bevilacqua per conto dell’Istituto Diego Carpitella di Melpignano; e una seconda volta pubblicato ancora nel 2003, sempre con lo stesso titolo, dall’Edizioni “Il Laboratorio” di Parabita di Aldo D’Antico e Franca Capoti.
Le parole di Bonea scritte nella lettera sono profondamente sincere, perché sincero era egli divenuto dopo quanto era successo a metà anni ’70, quando Antonio si era iscritto all’Università di Lecce e, come primo esame, aveva tentato di sostenere proprio con Bonea Storia della letteratura italiana. Quella volta Verri aveva preparato tutto quanto c’era da studiare per sostenere l’esame (il suo studio su tutti gli autori contemporanei, in primis Cesare Pavese, era completissimo) e lo sostenne, passando prima da Armida Marasco e poi dallo stesso professore. Solo che, una volta finito l’esame, Bonea gli chiese se aveva letto una dispensina distribuita da lui stesso durante una sua lezione. Verri non sapeva neanche dell’esistenza di quella dispensa, per cui il professore, candidamente, gli disse che sì era stata bravo nell’esame in generale, ma che non poteva dargli un voto pieno per via di quella dispensa. Verri non disse una parola, si prese il libretto universitario e uscì dall’Ateneo. Solo che una volta fuori, fece in cento pezzi il libretto promettendosi che non avrebbe più messo piede in quell’edificio.
Fu anche questa la molla che lo spinse a pubblicare il suo primo giornale - «Caffè Greco» (1977-1981), fatto con rabbia e con la volontà di pubblicare gli scritti di tutti coloro che erano stati esclusi (bocciati) dall’università o comunque emarginati da certa intellighenzia salentina. Per farlo ci incontravano in una strada di Calimera, raramente a casa di Antonio a Caprarica di Lecce. A stamparci i primi numeri, in formato tabloit, fu la tipografia di Franceschino Scorrano a Lecce. L’avventura del primo giornale di Verri continuerà in altri luoghi e con altre tipografie, ma sempre con l’entusiasmo del suo ideatore. Una volta stampato il giornale, suo grande interesse era di andare a venderlo (?), in realtà si trattava di donarlo agli amici, nei pressi dell’università e, in modo quasi sempre provocatorio, donarne una copia proprio a Bonea. Questo modo di fare durò fino a quando, in una delle ultime distribuzioni del giornale, il professore, che intanto sembrava essersi dimenticato di quello strano tipo grande e grosso con la barba nera e foltissima, gli disse che voleva parlargli e che sarebbe stato felice di farlo nel suo studiolo, ubicato allora nel corridoio sulla sinistra appena varcata la porta dell’Ateneo di Porta Napoli.
Verri aveva capito che il professore Ennio Bonea aveva forse dimenticato l’accaduto che gli aveva procurato la decisione di chiudere definitivamente con gli studi universitari, così accettò di incontrarlo. Nello suo studio all’università, nessuno fece cenno a quell’accidenti di esame di Storia della letteratura, così il professore si congratulò col direttore di «Caffè Greco» invitandolo a continuare le pubblicazioni. Invito accompagnato con una moneta di diecimila lire, che per Verri significò l’incanto dello scioglimento di ogni nodo alla gola. Da quel momento in poi Antonio L. Verri non fece più alcuna iniziativa letteraria senza prima averla concertata o comunicata a Bonea, il quale cominciò a sostenerlo anche economicamente. Io sono testimone di quanti contributi Ennio Bonea ha dato ad Antonio e non potrò mai dimenticare quella volta della mostra “Scrap”, per la quale il professore sborsò un milione di lire tondo tondo, giusto il costo delle cento cornici dei quadri.
La storia di quell’accidenti di esame andato male, gliel’ho poi ricordata io a Bonea, quando Verri ormai non c’era più a questo mondo, e, con mia grande sorpresa, il professore mi rispose “So!”.

mercoledì 12 giugno 2013

Antonio Verri e le istituzioni culturali


Antonio Verri con la paglia in una foto di Fernando Bevilacqua virata in verde-giallo

Riflettere sull’opera del poeta Antonio Leonardo Verri pare più che mai necessario a 20 anni dalla morte. Credo che un punto di partenza sia quello di non trasformare questo ventennale in una commemorazione, bensì in un nuovo inizio, a partire da un interrogativo a cui bisogna necessariamente rispondere per poter procedere nel migliore dei modi verso un dibattito il più serrato possibile attorno all’opera ed all’attività editoriale e al contempo intellettuale dell’autore. L’interrogativo che oggi dovrebbe segnare il procedere verso l’opera mi piace pensarlo come una riflessione attorno a quella che dovrebbe essere l’importanza di Antonio Verri oggi. Perché Antonio Verri oggi? Lo scorso 18 maggio, presso Tenuta Monacelli, in località Cerrate, s’è tenuta la prima presentazione del libro di Rossano Astremo “Con gli occhi al cielo aspetto la neve. Antonio Verri, la vita e le opere”, edito da Manni. Con l’autore intervenivano Carla Petrachi e Massimo Melillo. Proprio Melillo col suo intervento sottolineava come, secondo lui, con la morte del poeta sia finito un po’ tutto. Prima d’arrivare alla morte di Verri e a quanto è seguito, in questi 20 anni, occorre tratteggiare la figura del poeta, dell’intellettuale, dell’editore, a partire dal lavoro di Rossano Astremo che attraverso una metodologia ampia è riuscito a focalizzare alcuni punti salienti dell’operatività di Verri, della sua importanza per il panorama letterario italiano del secondo novecento. A partire dalle relazioni amicali, dalle collaborazioni, Astremo giunge all’analisi delle opere tratteggiando quelle che sono state le influenze, i punti di riferimento per Verri, che anche attraverso la fitta rete relazionale si muovevano  all’interno della sua opera. Ricollegarsi ad un tempo, non troppo distante, ma profondamente diverso dal nostro, non ancora divorato dal surplus mediale di oggi, impone uno scavo storico e sociale, comparato, e quindi culturale, del contesto in cui l’autore ha operato per poi giungere alla sua opera, proprio come tratteggiato da Astremo. Fra i punti di riferimento di Verri possiamo annoverare lo scrittore irlandese James Joyce, che nel suo “Ritratto dell’artista da giovane” scriveva che “il poeta è l’intenso centro vitale del suo tempo”. Cos’ha rappresentato Verri? Certamente ha avuto il merito d’agire ed essere un collante all’interno di una provincia che lui stesso definiva “difficile” perché “rarefatta” e possiamo aggiungere spesso caratterizzata da uno spiccato individualismo. La capacità del tesser trame, instaurare rapporti in un contesto dilatato, difficile, e ancora di più la capacità di contestualizzare tali criticità all’interno di un panorama nazionale ed internazionale inseriscono Verri in quel filone letterario e socio-politico che dai Fiore (Tommaso e Vittore) fino a Bodini e Dòdaro inseriscono le linee letterarie pugliesi in una dimensione europea capace di dialogare coi luoghi e di leggerli alla luce di una prospettiva internazionale, una weltanschauung ampia che permette a quelle trincee della meridionalità di respirare il mondo, nel mondo, senza scadere nel localismo becero del provincialismo contemporaneo, anzi manifestandosi nella pratica di uno scardinamento costante dei linguaggi, dei luoghi, delle operazioni culturali. La prospettiva meridionalista è da sempre lontana da ogni gabbia localistica, anzi, come lo stesso Verri sottolineava nella breve nota biografica inserita nella prima edizione del romanzo “I Trofei della città di Guisnes” (Il Laboratorio, Parabita 1988) scrivendo “Ha aderito al Movimento Genetico di F. S. Dòdaro, una delle linee portanti del Salento europeo, insieme al segno di E. De Candia, alla poesia di S. Toma…”, possiamo intuire come la connotazione territoriale non sia mai fine a se stessa, mai gabbia o freno, ma la necessità di una metodologia rigorosa, scientifica, capace di comparare e mettere in relazione e respirare il mondo piuttosto che la provincia, partire dai luoghi per maturare consapevolezze che aprano al mondo. Se Verri è ingabbiato non lo è a causa della prospettiva meridionalista, che ripeto aveva trovato in Tommaso Fiore il giusto interprete per un respiro internazionale – ed in quel solco ha operato il poeta di Caprarica – ma è, semmai, ostaggio dei vuoti provincialismi delle assenze istituzionali che da sempre caratterizzano il nostro territorio. Tutto questo risulta oggi necessario per riprendere l’affermazione di Massimo Melillo, precedentemente citata, e l’interrogativo iniziale. Qual è la necessità di Antonio Verri oggi? Quale la sua importanza? È realmente finito tutto nel maggio di 20 anni fa?

Mi piace pensare a questo interrogativo rispondendo con quanto più volte scritto e affermato da Mauro Marino, amico e collaboratore di Antonio Verri, che il 18 maggio rispondeva a Massimo Melillo affermando che il lavoro di Verri non era per la sua generazione, che in realtà non è finito nulla, ma che quel lavoro, quell’operare, era già per le generazioni successive. Pensare alle generazioni successive in relazione all’operare di Antonio Verri significa tener conto di quanto fatto in questi ultimi 20 anni e di quanti siano quei giovani che in quel modo di lavorare, in quella costanza, in quell’approccio culturale come reciproco scambio e fitte trame abbiano trovato pane quotidiano, modus operandi che negli anni ha portato proprio Mauro Marino, assieme all’attore Piero Rapanà, ad incanalare quel modo di operare in quello che sarebbe diventato il Fondo Verri di Lecce, ma penso anche a quanti altri abbiano trovato in quel luogo modo di dare avvio a intense iniziative culturali. E penso, ancora, a quanto proposto negli anni, con costanza e impegno, da Stefano Donno e Luciano Pagano, ma anche dallo stesso Rossano Astremo. Mario Desiati, introducendo la riedizione de “I trofei della citta di Guisnes” (Abramo Editore, Catanzaro 2005), scriveva: “Il senso è questo: uno scrittore di provincia per nulla distribuito, poco conosciuto, poco letto, poco letto anche all’Università e nelle riviste specialistiche, aveva contaminato la scrittura di un gruppo di ragazzi alle prese con il sacro (forse più profano) fuoco della poesia”. In questi 20 anni ci sono state iniziative, l’opera di Verri è stata analizzata, se ne è scritto, dunque, se ne è parlato, spesso grazie al fare di singoli operatori, troppe volte slegati dalle istituzioni o ignorati da queste. Quando pochi anni addietro ho discusso la mia tesi di laurea triennale, incentrata sull’opera di Antonio Verri, presidente di commissione era il prof. Angelo Semeraro, che mi si rivolse affermando che non aveva senso quanto da me proposto – ossia mettere in risalto quei motivi filosofici presenti nell’opera di Verri e che variano dalle esperienze del Surrealismo fino alle teorie sociali, filosofiche di Walter Benjamin (si pensi a quanto espresso nei “Trofei” in forma narrativa, alla porosità del sociale, alle dissolvenze mediali, l’immagine dialettica, o a testimonianza schiacciante lo sviscerato amore verso Benjamin manifestato col reportage “Portbou”), alla lettura di Bertrand Russell, solo per citarne alcuni, così come i riferimenti ad autori come Joyce o Queneau, alle esperienze sonore maturate dall’ascolto di John Cage, non prive di implicazioni teoriche trasposte in forma di romanzo, ecc – perché Antonio Verri, mi fu detto, “è un autore nostro, locale”. Ora, sono sempre partito dal presupposto che autori si è oppure no e penso: è racchiuso forse in quelle parole il limite dell’Università del Salento? Ciò che tiene in ostaggio Verri, la sua opera, non è, almeno in parte, l’indifferenza dell’Università? Il singolo operatore, slegato dalle istituzioni, sarà mai capace di portare la giusta attenzione che l’opera di questo poeta merita?  Quali sono i motivi che potrebbero portare Antonio Verri all’interno dell’Università? Letterari, naturalmente. L’opera del poeta di Caprarica, come già detto, si inserisce in quelle linee di scardinamento del linguaggio, oltrepassamento del lorchismo salentino, dunque della poetica bodiniana, e nell’attraversamento dei generi si apre alla narrazione mondo, in un melting pot culturale, teorico, letterario. Socio-politici. Verri è stato un fine intellettuale, ed una miriade di testi sparsi in riviste varie lo testimoniano. Un fine cronista del suo tempo, un critico attento, il cui agire può essere inscritto in un tracciato che dall’impegno sociale del ciclostilato, e oltre, di Roberto Roversi (si pensi al Fate fogli di poesia, poeti) arriva ad essere una delle voci più pure del meridionalismo. E ancora, scavando nell’opera verriana, si pensi al Naviglio Innocente (Erreci, Maglie 1990). A espressioni di trance poetica, di rapporti alterati con sé, il proprio corpo, o il mondo, nell’ascolto intimo della sonorità poetica: “Ero sempre in tutto ma ero sempre più lontano dal mio corpo…in realtà, ecco, quanto più il mio romanzo da un soldo cresceva tanto più io perdevo in carnalità, quanto più il Declaro prendeva corpo tanto più il mio corpo si sfaldava”. E ancora l’attraversamento dei generi, nella divaricazione dei diversi stili, letterari, mediali, sociali: “La nave delle parole… Forse il suo corpo brulicava di video, certamente in essa viveva una unità di memorie, un attrezzatissimo archivio, un vasto bosco di impulsi. […] Aveva cominciato un giorno di tanto tempo fa, dopo aver scoperto d’essere stato nel suo corpo attaccato da vari alfabeti, da forme navicolari, allungate, da forme anche sfumate, incerte. Era l’inizio. Aveva subito decretato la morte dell’oggetto unico, della singolarità. Gli era apparsa una grande nave”. Mi chiedo, vale anche in questo caso, quanto più volte affermato dal poeta sonoro e lineare Lello Voce, che la  critica contemporanea, l’accademia, sono impreparate ad affrontare criticamente, in modo serio, l’interdisciplinarietà, l’approccio intermediale delle nuove scritture? Eppure, oggi, l’opera di Verri è ancora viva, è nelle nuove generazioni. Penso a quanto fatto, ancora da Mauro Marino, come direttore del quotidiano Il Paese Nuovo, modificando la testata, dunque sottotitolandolo come quotidiano di culture e riflessione sociale, ha messo in atto un ribaltamento giornalistico, per cui la quotidianità interpretativa della scrittura giornalistica su Il Paese Nuovo, come matrice necessaria e pratica di un esercizio scritturale ed interpretativo dell’elemento sociale, fa in modo che la cultura –  e la scrittura giornalistica della stessa – escano dalla logica dell’evento per entrare in una dinamicità vitale che pone al centro dell’esercizio giornalistico la cultura come frutto di una dimensione sociale, quindi storica, del nostro esserci nel mondo. E non è tutto questo vicino all’esperienza del Quotidiano dei Poeti, fortemente voluto da Verri nel 1989?  Un quotidiano di sola poesia, prima, un quotidiano con un approccio giornalistico culturale e al contempo letterario, oggi. Una diversa scansione del vissuto quotidiano. E ancora una volta, nonostante le difficoltà, mi pare di vedere che l’opera di Verri e la sua importanza siano soprattutto oggi, per le nuove generazioni, nell’intensità di una pratica letteraria che a vent’anni dalla morte dell’autore è capace di muovere ancora tanto.

martedì 4 giugno 2013

Il libro mondo

 
Antonio Verri in treno in una fotografia di Fernando Bevilacqua virata in rosso

Antonio Verri, un classico in cerca di pubblico
di Rossano Astremo

Vidi per la prima volta la barba di Antonio Verri appesa - in fotocopia di non eccellente risoluzione -  ovunque tra i corridoi della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Lecce. Era il febbraio del 2002. Io ero uno studente in Lettere. Da lì a poco mi sarei laureato con una tesi sulla Beat Generation. Da qualche mese distribuivo gratuitamente in tutta Lecce, assieme a due miei amici, Paolo e Vito, un foglio autoprodotto di poesie. Si chiamava “Ariosto 219”. Su quella fotocopia c’era scritto che, presso il Teatro Astragali di via Candido, si sarebbe svolto un reading tratto dagli scritti di quest’uomo barbuto e dallo sguardo perduto – in quella foto scattata dal sua caro amico Fernando Bevilacqua – chissà dove.
No, non sapevo nulla di Antonio Verri prima del 2002. Mi recai assieme a miei amici poeti, tutti poco più che ventenni, nello spazio teatrale diretto da Fabio Tolledi e, in quelle poche ore in cui silente assistetti a diverse letture, mi s’aprì osceno e per sempre il mondo biografico e poetico di Verri.
Di quella sera, a distanza di oltre un decennio, messa in piedi dai suoi amici più cari per celebrare il suo compleanno, a quasi dieci anni dalla scomparsa, avvenuta il 9 maggio del 1993, ricordo l’emozione di uomini e donne che sul piccolo palco del teatro si succedevano alternando a ricordi personali relativi al loro vissuto con Verri, passaggi dei suoi testi migliori. Ricordo Antonio Errico, Mauro Marino, Piero Rapanà, Maurizio Nocera, Ferndando Bevilacqua e lo stesso Tolledi.
Ricordo letture tratte da “Il naviglio innocente”, “I trofei della città di Guisness”, “Bucherer l’orologiaio”, “La Betissa” e lo stupendo manifesto poetico di “Fate fogli di poesia”, tratto da “Il pane sotto la neve”.
Ascoltando quelle parole che in piena travolgevano la mia attenzione compresi che di quel Verri tutto avrei voluto sapere. E subito. L’indomani mi recai presso la biblioteca centrale dell’Ateneo leccese e, compiendo una facile ricerca, vidi che di tutte le sue opere vi era una copia e quelle copie presto divennero mie, entrando con forza nel suo mondo poetico e narrativo e non uscendone mai più.
Antonio Verri è stato per la giovane generazione di letterati salentini,  a partire  dalla fine degli anni ’70 e per tutti gli anni ’80,  una sorta di faro, punto di riferimento, catalizzatore di energie, bussola che indirizzava azioni e riflessioni. Verri era un uomo dalle mille amicizie, dai molteplici interessi, instancabile costruttore di progetti, percorsi e azioni, il quale poneva lo stesso massimalismo – il tutto dentro – nella sua idea di mondo possibile, nella sua costruzione letteraria insonne emai doma e sempre. Riprendendo un mio intervento scritto nel 2005 e pubblicato sulla rivista”Incroci”, diretta da Raffaele Nigro e Lino Angiuli, mi pare tuttora valida l’idea secondo cui “per  Verri scopo fondamentale della sua esistenza e del suo ruolo di scrittore è quello di creare un libro che in grado di contenere l’intero Mondo, un libro infinito, fatto di parole meravigliose, splendenti, in continuo accumulo, in continuo divenire, attraverso un’azione di lavoro sul linguaggio quasi scientifica, mai sconclusionata, fortemente sentita”. La sua idea di scrittura era titanica, molossa, tendente all’infinito. Cosa vuol dire avere come obiettivo dare vita ad un libro in grado di contenere tutto il mondo, se non agire nella consapevolezza della sconfitta? La migliore letteratura prodotta da Verri nasce da questa crasi: da un lato la sua voglia di assoluto, dall’altro lato il prodotto finito del suo tentativo altissimo.
Eppure le pagine che ci ha lasciato, sono poesie e prose che resistono al tritacarne del tempo. Verri è già classico, come solo Bodini, nel Salento letterario del Novecento, perché le sue pagine continuano ad affascinare un nutrito pubblico di appassionati lettori. Qui, però, s’apre l’ultimo rivolo di questo mio intervento. Quel pubblico da nutrito dovrebbe divenire sempre più nutrito, ma lo scoglio sul quale frana l’acqua del suo flusso è dettato da ragioni squisitamente editoriali. In vita Verri pubblicò sempre con piccolissimi editori le sue opere. Dopo la sua morte, grazie all’azione generosa dei suoi amici, le sue opere sono state ripubblicate sempre da piccoli e battaglieri editori,  ma questo non ha permesso al suo genio – consentitemi questo termine per una volta – di avere gli allori che merita. Il passaparola non basta laddove la reperibilità degli scritti è assente.
Cosa possiamo fare per arginare il suo oblio, che sopraggiungerà imperioso qualora le sue parole scritte smetteranno di significare poiché saranno rese mute da una assenza di pubblico?