martedì 24 dicembre 2013

"Marsia - variazioni poetiche" per Antonio L. Verri

La copertina del numero di Marsia (Progedit - Bari) dedicato a Verri a cura di Salvatore Francesco Lattarulo

di Alessandra Peluso 

Permanere nell'indifferenza e vagare nella superficialità sarebbe stato per Antonio Verri un sacrilegio, un'altra morte non parlare della poesia, della cultura e della sua fondamentale importanza. Per questo e per molti altri motivi non potevo non soffermarmi a leggere la rivista “Marsia. Variazioni poetiche”, pubblicata da Progedit, dedicata ad Antonio Verri, alla sua personalità e alla forte mancanza sentita in particolar modo dalle persone che lo hanno conosciuto.
Il numero della rivista è curato dalla sensibilità di Salvatore Francesco Lattarulo, attonito quando scopre che nel paese natale del poeta - Caprarica di Lecce - non ci sia nulla di dedicato a lui: una statua, un busto, una via. Forse non c'è tanto da meravigliarsi, forse ad Antonio Verri non avrebbe fatto piacere non amando l'apparire, l'ostentazione ma sarebbe stato contento se il suo nome fosse stato utilizzato per unire gli uomini, gli amici, i lettori in nome della poesia e della cultura. 
A tal proposito si legge: «Cominciate, poeti, a spedire fogli di poesia / ai politici, gabellieri d’allegria, / a chi ha perso l’aria di studente spaesato / a chi ha svenduto lo stupore di un tempo … », perché - scrive Stefano Donno - sia di stimolo alle nuove generazioni che pubblicano e creano, che sia un monito al recupero dello stupore forse, dell’onestà intellettuale meglio. Su questa grande personalità a Lecce è sorto “Il Fondo Verri” curato da Mauro Marino e Piero Rapanà: luogo davvero unico di leggende e scritti di e su Verri se ne possono trovare con discreta generosità. (p. 34). E come dar torto a Donno che conosce e ama profondamente la poetica verriana e la storia della poesia salentina.
Ed ancora nell'intervento di Sergio Torsello si legge: «La scrittura di Verri era una scrittura verticale, addirittura vertiginosa. Perché poggiava su radici solide e profonde. L’esatto contrario, insomma, di una scrittura orizzontale». (p. 32). Numerosi gli interventi e le testimonianze contenute in questo numero di “Marsia” come quello ad esempio di Maurizio Nocera, Carlo Alberto Augieri, Salvatore Colazzo, Antonio Errico. 
È evidente l'entusiasmo, l'affetto, la stima e l'estrema cura nei riguardi di Antonio Verri che avrebbe meritato che il paese cambiasse nome in suo onore: «Io stesso, da tempo, sto cercando di dare corpo all’idea di Vittore: far diventare Caprarica di Lecce “Caprarica del poeta”». (Fernando Bevilacqua, p. 61). Senza alcun dubbio è stata una fortuna conoscere personalmente Verri, e un dolore acuto perderlo e forse anche per questo, per tentare di colmare questo vuoto, un'assenza nella letteratura salentina e nazionale che merita oggi di esserci non soltanto per poesie meravigliose, scritti come il “Declaro”, “Il pane sotto la neve” che occorre salvare dall'oblio, ma per l'onestà intellettuale che apparteneva ad Antonio Verri, il senso di umanità. Va salvaguardato e diffuso tutto: essenza ed esistenza, uomo e scrittura.
Si legge: «Non c’era pensiero, non c’era visione, neppure l’attimo di un giorno che non si trasformasse in scrittura. Le creature, i paesaggi, un batticuore, i fondali dell’esistere, un pulviscolo dorato, il padre, la madre, gli amici, le tenere malinconie, le lucide ossessioni, per Antonio Verri non erano altro che pretesti per versi, narrazioni. Forse come Zarathustra di Nietzsche pensava: aspiro forse alla mia felicità? Io aspiro alla mia opera». (Antonio Errico, p. 68).
Un personaggio articolato e complesso, visse molto intensamente e generosamente, profuse immense energie per costruire un mondo poetico da abitare. Visse poeticamente e morì tragicamente - scrive Salvatore Colazzo - riprendendo il ruolo che la poesia aveva per l'amico Verri e parimenti sia oggi dopo vent'anni: «la poesia è fiamma che consuma, è l’incontenibilità della vita che esonda e produce parole come fossero eruzioni laviche». (p. 82).
Ispirazione e modello di una necessità di dire e di dirsi incontenibile, passione esaustiva pervade il lettore che resta totalmente rapito dalla magnificenza raccontata in “Marsia”. Contributi che devono essere centellinati come versi, letti, meditati e poi sperare di riconoscere e condividere con l'altro, gli altri lo stesso amore spregiudicato che Antonio Verri ha avuto per la poesia sofferta, vissuta in ogni particolare, dettaglio, nulla è stato lasciato al caso per Verri nemmeno la morte.
Conoscere e diffondere per quanto sia possibile la produzione verriana è un atto di generosità che spetta non solo ai salentini ma agli italiani tutti, un modo per ringraziare chi per la cultura ha dedicato una vita intera senza profitti né lucri né fini egoici, uno spirito cosmopolita da assumere come modello e dal quale attingere.    

lunedì 23 dicembre 2013

Antonio Antonio!


La copertina del libro edito nel 2003 da "il laboratorio" di Aldo D'Antico a Parabita
Antonio Antonio,
o dell'amicizia
di Alessandra Peluso

Nostalgia, affetto, ammirazione emergono in “Antonio Antonio, o dell'amicizia” di Maurizio Nocera nei confronti di Antonio Verri.
Uomini che hanno condiviso l'amicizia, ma soprattutto l'amore per la cultura, la libertà nella conoscenza, in un sapere  non accademico né vincolato in mura pregiate ma sconfinato, in un sapere profondamente impegnato. Così com'era Antonio Verri, poeta salentino, impegnato, che il professore Nocera e molti suoi amici hanno tenuto vivo il ricordo. Emblema di umanità, vi è  costantemente e con zelo la volontà di diffondere le vastissime opere verriane e in particolar modo il suo essere poeta.
Per comprendere la grandezza di Verri è necessario leggerlo e accostarsi da vicino al suo pensiero, alla vasta mole di versi liberi, sciolti da ogni artificio e faziosità, liberi di essere espressione di se stesso, liberi da catene e padroni, perché il poeta non amava vincoli né compromessi. Ha tentato di insegnare la passione verso la poesia e la cultura, amando intellettuali dediti al sapere, coinvolgendo i giovani in un impegno sociale per un cambiamento.
Lo crede lo stesso Nocera che in “Antonio Antonio, o dell'amicizia” scrive versi dedicati a Verri, narra episodi che coinvolgono il poeta come si legge nella bellissima “Castra Minervae”: «Dondolavi dolcemente sul tuo splendido cavallino bianco / ricordo di luoghi di tempi lontani, / forse i più belli, forse i più cari / curlandoti fra le grosse mani / i magici Canti orfici di Campana». (p. 45).
Risuona incessante l'eco del passato che non si può né si deve dimenticare. Vige imperante la stima e l'affetto verso un uomo che nonostante gli sforzi non è ancora conosciuto e non ha i meriti che dovrebbe. Forse Antonio Verri da persona schiva ed umile com'era non avrebbe amato orpelli o riconoscimenti, ma senza dubbio avrebbe apprezzato la voglia di condividere con entusiasmo la poesia, la scrittura: strumenti infallibili che indicano libertà, intelligenza e onestà intellettuale. Occorre prendersi cura di Verri e Maurizio Nocera lo sa bene, e ad oggi continua a farlo in segno di un'amicizia che ha il sapore dell'eterno. 
Mentre nei versi dell'autore si avverte tutto l'odore di una terra salentina amara, gravida di “ritmi transmatici di un Salento rosso di fuoco”.
Veleggia passione, solitudine, nostalgia, rimpianti, malinconia, un passato che Maurizio Nocera mantiene vivo e alimenta con significativi sensi e significati che la poesia esprime.
Leggere “Antonio Antonio, o dell'amicizia” provoca tutto e il contrario di tutto, la memoria e l'oblio, la gioia e il dolore, la bellezza e la meschinità, l'aridità e la fertilità di un'identità forte e fragile allo stesso tempo come quella di Antonio Verri. Immergersi nei versi del professor Nocera è d'obbligo, è un atto dovuto a chi ci ha lasciato ma soltanto fisicamente ed è altrettanto opportuno ricordare la produzione letteraria di Verri, gran parte in luce grazie al lavoro dei suoi fedelissimi amici ma ancora tanto deve essere conosciuto, perché un eclettico e poliedrico come Antonio Verri non si stancava mai di diffondere il sapere e intrecciare amicizie - quelle vere - che oggi purtroppo mancano o son rare.
Antonio che sognava e amava che gli altri sognassero, “Antonio caput mundi” come lo definisce degnamente l'amico Maurizio: «Mi parve di vederti / in un'aura di luce / al tepore della pietra nascosta / ai piedi di Torre sant'Emiliano / dalle parti di nostra Magna Mater. / Era la luce, / Antonio, / poi venne il buio / per sempre». (pp. 109-110). Non permettiamo che questo buio resti fitto e denso, immobile e insensibile alla luce, ma anzi cerchiamo di penetrare nel mondo incantevole di Antonio Verri, nella sua illimitata sensibilità, lasciando affondare i versi taglienti e vivi di “Antonio Antonio, o dell'amicizia” perché giungano senza impedimento alcuno nella mente e nell'anima di ognuno di noi, di un lettore che non abbia a confrontarsi con il rimorso di non aver conosciuto Antonio Verri o con il rimpianto di non aver fatto qualcosa per lui.
E per tal motivo Maurizio Nocera - che non ama definirsi poeta - scrive in versi come necessità prioritaria di far ascoltare le “voci” poetiche di Antonio Verri e Salvatore Toma: i Poeti che non si può non ascoltare, non amare!

giovedì 5 dicembre 2013

Perchè vedi Antonio...

di Vito Antonio Conte

Sabato ultimo del novembre già andato, a Vignacastrisi, s’è svolto il reading “Maledetti Poeti”, voluto dall’Officina d’Arte di via S. Francesco (alias Agostino Casciaro… in collaborazione con il Consorzio Autori del Mediterraneo, l’Associazione Culturale Parabola A Sud e l’Assessorato alla Cultura del Comune di Ortelle). Più che un omaggio o un ricordo, una testimonianza d’amore al poeta (di Caprarica per nascita, ma del mondo per vocazione) Antonio Leonardo Verri (nel ventennale della sua morte). Un coro di voci s’è levato a riprova del fatto che Antonio è sempre vivo. Una tra le tante manifestazioni che quest’anno han parlato di Antonio e con Antonio. Mi accorgo che ne scrivo come se fosse (e non fosse stato) mio amico, dandogli del tu, chiamandolo per nome. Invece, non l’ho mai conosciuto. Forse. L’ho incontrato (questo è certo) dopo… Gli ho anche rubato (ma Antonio lo sa…) un verso (che ho usato a mo’ di esergo per un mio libro), ma ben altro gli devo… E allora, per ringraziarlo, tra tutto quel che ho sentito la sera furibonda di pioggia e di vento e di parole del trenta novembre scorso, rubo a Giovanni Santese (ma Giò lo sa…) un suo vecchio “scritto” (liberamente tratto e ispirato da “Il Fabbricante Di Armonia – Antonio Galateo” di Antonio Verri) che, all’epoca, firmò (Giovanni intendo) P.E. (ossia Pessimo Elemento, dal nome del suo blog, ormai chiuso da tempo, ma che – come i buoni versi – ancora gira e rirerà nel tempo…). Ecco:  

Dialogo principiato, abbandonato
e mai ripreso con Antonio Verri
di Giovanni Santese
perché vedi Antonio
ad uno scrittore capita di trovarsi di fronte una campagna arida, di parole, estesa fin dove posano gli occhi, polverosa e sbrindellata quanto basta (e se non capita è perché non si è scrittori), matta e spessa ad assorbire i raggi dell’ispirazione, del tumulto, dell’abbrivio poetico potente quanto serve ad arare di solchi immortali tanta arsura spianata

perché vedi Antonio
in quei momenti, in quei momenti là dico, è bello (o utile, dico) avere un alter ego, che parli per noi, che come un menestrello riunisca in uno spartito parole vuote apparentemente senza senso, ma che assumono leggendole una musicalità strabiliante, un alter ego insomma… con panni d’arlecchino, la faccia impiastricciata di neve e di farina, al lieve andare sbandando la figura, mima, sorride, fa boccacce… oh grandioso figlio del nulla, ma… è stefan, è stiffan l’inventore, il solitario impostore, lo svagato cercatore di lucchi, l’eterno pellegrino suasore, il sognatore cocente, babelico, fumoso… ma è proprio galateo questo mago che viene, questo diavolicchio che cresce come il timo… tira una parola dietro l’altra, simula uno squilibrio, continua il gioco… è tanto preso, però, che il tutto spesse volte gli sfugge di mano: ecco, allora è qualcosa di divino, piroettante, aristocratico (per usare i suoi suoni), allora nient’altro che parole, neologismi, accettazione propria, doppie, elisioni, d’una musicalità strana, umorale, faticante… (da parte, la mar: istigazione a movimenti lenti, riflessivi, a godere del tempo, istigazione al tabulare, all’intrico di fatterelli, numeri, folletti, cuoricini… istigazioni, istigazione alla cabala…) oh no, guatarazzi no, scalcioni puttenosi, minnàculi spersi, sguanci, ronze, parse, pizzi, gustose pasticche, quaresimali, mustocciomini, non v’è più alto mondo di questo vigneto, cellule serrate, rami a stella familiare…; e sotto questo vigneto, vi dico, è luce, è luce che pressa sul gran vuoto, che arrotonda l’idiozia dei caseggiati – questi che sono cristalli, questi che sono sorde caccole di luce, cadute in terra, diventate costoni pali treni, muntagne staziose, burri, corpi di luce melampina, croste graalitiche, varicellose, foolmoni e sarsi ferrosi, cloache… sono diventati

perché vedi Antonio
se la paura di dare mortal respiro aguzza l’ingegno e rende impavidi quel lunghissimo secondo d’agonia celeste, innocuo il dolore, arioso il corpo e leggero, come parole posate sulle nuvole e con le nuvole lasciate andare, o ancora se dato mortal respiro io continuo a parlarti fusse ca fusse ca nu pocu me sta fissu?

perché vedi Antonio
io direi poco umilmente – datemi un fonema e vi racconterò il mondo – mentre tu da come arrotoli la lengua di pesce, sembri dire, mio stiffan, l’ordito d’o mundo è intrigante, l’òrrito delle cose di voialtri è sconvolgente, perciò i miei scoppi di vuoto, perciò le finezze malianti, le rughe color croco, lo stupore profondo, smemorante, le cische caddenti, i frisi festonnati… perciò perciò s’arrischia la lengua, quando spunta s’arrotonda – fummi, corsieri, busti, corpetti – è di un biancore a pois, gelide chiazze, tepori rosati, petaccio però: che sia petazzo, sfiziomio, che lascimpiedi la tremolante cassarmonica, che tutto scoperchi, tutto sprofondi in una nuova scia sotterra, che porti con sé la mia metà faccia, qualche foca che ho per troppo fuoco, per veluscio, per vinetto… che prti via tutto ’nsomma, che porti di me quel che vi ho detto, che scivoli senza arresto senza fondo

perché vedi Antonio
se dall’evoluzione della specie l’uomo somiglia sempre meno a se stesso… allora io tanto fervore non lo capisco, questa ostinazione a voler salvare i poeti dalle fiamme dell’inferno più inferno della terra, questo voler liberare i poeti dal loro impegno di buffoni di corte, dalla malasorte, con quell’ondeggiare tra la vita e la morte, ma poi… a noi che ce ne frega, noi sappiamo com’è iniziato tutto… e come andrà a finire tutto questo… perché noi vediamo all’orizzonte che corre, già corre la tila corre… e noè noè galleggia, non s’accorge ma perde consonanti, gemend, tondeggia… e la tila intanto corre e corre… la luce stupirà… stupirà i suoi occhi… e i miei così vergini di luce… che corra dunque… che corra questa scia, che giri sul giro della terra… che scinda, che scanni se vuole, porti erva di taglio e, nelle isazze, gli sfinimenti di un dio vendicativo, che ama le fòffule e i miraggi, corbelle frottole appannaggi… cantate cantastorie cantate, mimate cavalieri mimate le imprese dell’orzo bollito, suonate suoni suonatori suonate suoni non trasportabili in codici tipografici

perché vedi Antonio
o animale favoloso, o mio sperso, gnorreo, ciciarroso, o dolloso, o dolloso mio vecchio sogno che consumo in una città di boati o beoni, in un tempo che non tollera più buffonerie… ma pitto, farro, sbarro… cazzo… buffonerie saranno.
Eccome.   

sabato 30 novembre 2013

A Vignacastrisi Maledetti Poeti


L’officina d’arte di via S. Francesco in collaborazione con il consorzio autori del mediterraneo, l’associazione culturale parabola a sud e l’assessorato alla cultura del comune di Ortelle, presenta: “MALEDETTI POETI” gli autori, rassegna autunnale di poesia, teatro e musica.
(nel ventennale della morte del poeta salentino Antonio L. Verri)
Introduce e coordina Salvatore Nicolì
gli autori MATTEO URSO, ENRICO MOLLE, ANNAMARIA GIORGIANI, GIOVANNI SANTESE, MARCELLO BUTTAZZO, TINA RIZZO, ROBERTO MOLLE, AGOSTINO CASCIARO, PINA PETRACCA, VITO ANTONIO CONTE, SERGIO MANCARELLA, MATTEO CONTE, SIMONE BACCARO, MAURO MARINO, ANNAMARIA MANGIA, GIUSEPPE GRECO.
interventi FERNANDO BEVILACQUA, DANIELA PAIANO, PASQUALE BONO, TIZIANA BOCCADAMO. Suoni MINO GIAGNOTTI, VALENTINA MAZZOTTA
L'appuntamento oggi, sabato 30 novembre 2013 – ore 20,00 nei locali della Biblioteca comunale, via Asilo Infantile a Vignacastrisi

venerdì 22 novembre 2013

Verri nel libro di Simone Giorgino

 
di Alessandra Peluso 
(da Affari Italiani 28 agosto 2013)
 
Dopo una lunga attesa è stata data alla luce un'importante opera dedicata ad un poeta salentino, Antonio Verri, una variegata personalità di sentimento e passione, una mente singolare.
Simone Giorgino con “Antonio L. Verri. Il mondo dentro un libro” merita un plauso per il considerevole lavoro di ricerca attuato non solo sulla biografia di questa grande figura scomparsa tristemente prima di veder luce e considerazione sulla sua vasta produzione poetica e prosaica, ma anche perché offre in modo esaustivo il mondo verriano dentro un libro.
Antonio Verri - racconta Giorgino - è un autore sedotto dalla neoavanguardia e dal post-modernismo, attento alle più ardite sperimentazioni linguistiche da Gadda, a D'Arrigo sino a Joyce e Queneau ma anche radicato alle radici salentine cercando di recuperare e valorizzare la cultura salentina nei confronti di quella europea. Molti sono i versi dedicati all'amico Vittorio Bodini e a Carmelo Bene, convinto della genuinità della poesia e contrario ad ogni forma di perbenismo, di ostentata cultura, si dimostra un poeta che ha una decisa funzione sociale. «Il poeta ha sempre di più responsabilità e problemi di linguaggio, di stile, di aderenza a una realtà abbastanza complessa, di tensione, di rivolta». (p. 53).
È  l'uomo in rivolta - come direbbe Camus -   che tenta di fornire una soluzione al problema della rivolta nella storia e di riabilitarla come «valore fondatore d’umanità», contro le sue deviazioni, aprendo la strada ad un’etica della misura oltre l’idealismo morale e il realismo cinico. 
“Antonio L. Verri. Il mondo dentro un libro” trabocca di un'umana passione propria di Verri e ne fa assaporare tutta la sua veemenza e integrità intellettuale nei riguardi dell'uomo, della società del tempo. Attivo e impegnato Antonio Verri ricerca la propria verità convinto che ognuno debba seguire l'autenticità dell'essere salentino integrato in un mondo europeo e in un'epoca della globalizzazione che stava alla fine degli anni novanta emettendo i primi vagiti.
Viaggiatore non solo esistenziale intende portare a compimento il suo sogno: scrivere il mondo dentro un libro, non è dato saperlo se questo avverrà, o meglio occorre leggere la storia per aver quanto meno la possibilità di esprimere un giudizio.
L'autore presenta un patrimonio culturale per nulla indifferente, delicato e attento a riportare le molteplici pubblicazioni di Verri, molte delle quali sparse e frammentate presso piccole case editrici del nord, come anche le riviste. Eh sì, perché spesso capita di non comprendere i tesori e di gettarli via dalla finestra per essere poi raccolti da chi di passaggio ne coglie la bellezza e il valore.
È un poeta, uno scrittore, un pubblicista, un uomo che non si può dimenticare Antonio Verri - originario di Caprarica di Lecce - d'animo generoso come pochi, sensibile, straripante di entusiasmo, dalla capacità straordinaria di coinvolgere inevitabilmente chi lo conosceva oltre agli amici più cari. La poesia si legge nel “Il pane sotto la neve” (che non è fuoco minore come pure ho scritto) la si lascia per i brutti tonfi, per le dolcezze, per le disperazioni, per gli incanti. (p. 70). Come un grosso tonfo lo procura la pubblicazione nel 1987 de La Betissa. Saga composita dell'uomo dei curli e di una grossa signora: una storia geniale in versi liberi e irregolari ambientata sul promontorio di Castro - come del resto tutte le sue narrazioni -  che come scrive Simone Giorgino rivela una critica aspra contro una società massificata e mercificata.
Ma il poeta Antonio Verri è anche l'uomo del conflitto, l'uomo che cerca se stesso, la propria identità, ed è lo stesso “conflitto” che lo condurrà ad una probabile delusione nel comporre “Declaro. Il mondo dentro un libro”: un progetto sedimentato che fuoriesce come magma incandescente.
Per comprendere la grandezza di Verri è necessario leggerlo e accostarsi da vicino al suo pensiero, alla vasta mole di versi liberi, sciolti da ogni artificio e faziosità, liberi di essere espressione di se stesso, liberi da catene e padroni, perché il poeta non amava vincoli né compromessi. Ha tentato di    insegnare la passione verso la poesia e la cultura, amando intellettuali impegnati che detestavano  i “borghesucci” e coinvolgendo i giovani in un impegno sociale per un cambiamento. Non è dato saperlo in realtà se ci fosse riuscito, ma possiamo dire ora quanto Verri sia prestigioso come uomo e come poeta, scrittore, e autorevole sia per i salentini che per gli italiani, e questo è possibile soprattutto per il lavoro effettuato da intellettuali come Simone Giorgino.    

domenica 10 novembre 2013

Bonea, Verri e gli amici di Verri


di Gigi Montonato

Concepito nel 2003, per celebrare il decimo anniversario della morte di Antonio Verri, l’opuscolo di Ennio Bonea, “Antonio Verri, l’uomo-rivista”, vide la luce nella mia collana “I quaderni del Brogliaccio”, al n. 2 - Marzo 2004. Ignoro se Bonea avesse tentato prima di pubblicarlo altrove, senza riuscirvi. Lo propose a me ed io glielo pubblicai. Il titolo fu suo, peraltro ripreso da Toni Maraini (sorella di Dacia), che così aveva definito Verri.
Ho letto delle cose di Verri e su Verri post eius mortem, ma mai mi è capitato d’imbattermi in una citazione di quell’opuscolo. Dal che ho dedotto che quel lavoro non piacque agli amici e agli estimatori di Verri.
Le ragioni probabilmente si perdono nel groviglio di rapporti obliqui nel mondo degli intellettuali salentini. Bonea aveva i suoi amici e i suoi devoti, ma aveva anche i suoi detrattori. Come tutti, del resto. Antipatie e simpatie riemersero, ancora una volta, qualche anno fa nel corso di una celebrazione alla Biblioteca Caracciolo a Lecce da parte di Carlo Alberto Augieri, quando Valli rivendicò la superiorità della scuola filologica di Marti contrapponendola a quella dalla quale era disceso Bonea. Augieri e Giancarlo Vallone ne presero le difese.
Personalmente ho conosciuto Antonio Verri una sera di non ricordo bene né giorno né mese del 1985 a Galatone, dove, promotore Vittorio Zacchino, fu presentato il libro di Verri “Il fabbricante di armonia, Antonio Galateo”. Prima non ci si era mai incontrati, ma lui diede ad intendere che mi conosceva, chiamandomi per nome, e mi salutò con tanto calore e tanta cordialità da farmelo percepire come una gran bella affabile persona.
Ma torniamo al Verri di Bonea. Sono trascorsi ormai quasi dieci anni da quell’opuscolo, venti dalla morte di Verri, maggio 1993. L’ho ripreso in mano e me lo sono riletto. I contenuti – una sorta di regesto delle sei riviste fondate da Verri – sono preceduti da un prologo, in cui Bonea parla dell’irregolarità del personaggio, che lui aveva avuto allievo all’Università di Lecce.
«Chi scrive – ricorda Bonea – lo ha avuto studente universitario ed ha, forse, la responsabilità di avergli fatto abbandonare l’università e a partire emigrante in Svizzera. Aveva una particolare concezione della letteratura, che nulla aveva di organico. All’esame che egli sostenne di Storia della letteratura moderna e contemporanea, ignorava del tutto il programma svolto per le lezioni.[…]. Non si laureò mai». 
Da docente, quale sono stato per quarant’anni, non posso non essere d’accordo con Bonea. La scuola è fatta di programmi, di contenuti da studiare e dimostrare di conoscere, di prove scritte e orali, un universo di regole, di scadenze ineludibili e indifferibili. Chi, per sua natura, è fuori da quell’ordine a scuola vive le pene dell’inferno. Verri, ad un certo punto, volle farla finita; lasciò l’Università e se ne andò a conoscere il mondo in ogni altra sua dimensione che non fosse quella degli odiati piani scolastici. Finì in Svizzera, a lavorare come tanti altri emigranti salentini.
Una più o meno simile esperienza la visse Salvatore Toma al Liceo “Capece” di Maglie, dove il prof. Claudio Micolano – severo professore di Italiano, Latino e Greco – non poteva tollerare nella scrittura dei temi la forma scorretta dello studente-poeta. Si dice: ma perché la scuola non comprende simili soggetti? Per la natura stessa della scuola, che è fatta – come si diceva – di regole. Gli sregolati o irregolari, che dir si voglia, per quanto geniali, sono incompatibili.
Bonea, pur avendo per la poesia e la narrativa postmoderna, in cui Verri scrittore sarebbe stato inserito dai critici, nella sua funzione di docente non poteva non valutare Verri se non per le conoscenze di un programma. 
Forse Bonea, parlandone qualche anno dopo per ben altra ragione, sarebbe potuto entrare subito in medias res senza sottolineare la di lui pregressa esperienza negativa. Anche perché sul Verri fondatore e direttore di riviste c’era già tanto da dire.
Il fatto va visto e spiegato in un contesto diverso. Verri – ma non è il solo nel panorama salentino e meridionale – ha espresso con le sue esperienze editoriali e i suoi scritti, a prescindere dal valore – un aspetto di tipo classista degli intellettuali-scrittori. Egli aggiunse alle dialettiche antinomie poveri-ricchi e proletari-borghesi, quella di intellettuali privi di mezzi e intellettuali con abbondanza di mezzi, rivendicando la partecipazione dei primi per rompere un dominio di “classe”, altrimenti appannaggio esclusivo dei secondi.
Calzante o meno questo schema, di chiara derivazione marxista, sta di fatto che è riscontrabile in gran parte del Salento e forse di tutto il Meridione a partire, in crescendo, dalla metà del Novecento. Si tratta di un fenomeno diffuso da analizzare con gli strumenti propri della sociologia politica. E’ un aspetto importante della trasformazione antropologica che ha caratterizzato e travagliato l’esistenza per secoli delle classi povere, che con la crescente alfabetizzazione sono passate dalle forme orali a quelle scritte della loro comunicazione, fino alle opere letterarie vere e proprie.  Non c’è paese del Salento in cui non esista un Salvatore Toma o un Antonio Verri, forse non sempre alla stessa altezza, ma sempre con lo stesso intento di imporsi in un mondo dal quale spesso si viene esclusi o respinti. La grammatica, la sintassi, la consecutio, i contenuti regolari, a cui la scuola, ovvero la “classe dominante”, si appella per giustificare l’esclusione, sono per questi poeti e scrittori le barriere architettoniche che impediscono l’accesso ad un portatore di handicap. Ma essi, le barriere formali dell’espressione, le possono violare e le violano. Il diritto di esprimersi e di far sapere agli altri i loro pensieri, le loro idee, le loro forme di comunicazione ha il sopravvento su tutto.
Perché io che non ho i mezzi non devo esprimermi, farmi conoscere e magari valgo anche più di te che hai i mezzi e tutto quello che serve per avere il successo? Ecco la domanda che i vari Verri si pongono. E Antonio Verri organizzava riviste per creare spazi e metterli a disposizione di quanti volessero esprimersi, a prescindere dalle regole e qualche volta perfino a loro dispetto.
Probabilmente Bonea, scegliendo il Verri “uomo-rivista”, volle ribadire la bocciatura dell’ ”uomo-scrittore”. E questo agli amici di Antonio non è mai andato giù.

Gigi Montonato

mercoledì 16 ottobre 2013

Il libro di Simone Giorgino su Antonio Verri

Su “Nuovo Quotidiano di Puglia”, 16 ottobre 2013

VERRI, L’UOMO CHE DANZAVA CON LE PAROLE
di Antonio ERRICO

L’opera di uno scrittore appartiene a tutti. L’uomo che ha scritto l’opera, invece, no. Per cui, quando l’uomo che ha scritto l’opera non vive più, appartiene esattamente a chi è appartenuto quando viveva. Non a chiunque.
Nei vent’anni che sono passati dalla morte di Antonio Verri, molti si sono dati licenza di entrare nella vita della persona, spesso tessendo un’aneddotica che, se non era falsa, non aveva comunque alcuna rilevanza. Peraltro talune volte della sua opera non avevano letto neppure mezza riga.  Ma si può in qualche modo giustificare il fatto, considerando che il destino dei giganti è quello di ritrovarsi i nani sulle spalle.
In questi giorni, però, Simone Giorgino ha pubblicato con Lupo editore, un saggio serio, accurato, approfondito, intitolato “Antonio L. Verri. Il mondo dentro un libro”. Un’analisi dell’opera metodologicamente coerente, una bibliografia di e su Antonio Verri precisa, una contestualizzazione dell’opera con i rimandi essenziali, l’individuazione di quelli che sono stati i riferimenti letterari e i modelli stilistici, le finalità, i caratteri e gli esiti della sua sperimentazione. Oltretutto, l’attendibilità del saggio di Giorgino è  testimoniata dalla sua provenienza da una tesi di laurea di cui è stato relatore Antonio Lucio Giannone.
Giorgino rileva come per Verri il linguaggio sia autonomo rispetto al mondo esterno. Tutto si genera, si sviluppa e si consuma e poi si rigenera, si trasforma e si dissolve ancora, all’interno dell’universo testuale. Verri non vuole narrare l’accaduto; vuole creare un mondo “ altro”, e del mondo reale lo attrae non il fenomeno ma la parola che dice il fenomeno. Anche l’elemento autobiografico, di cui comunque è tramata l’opera, a volte sia pure soltanto come memoria di suggestioni, svolge la funzione di un pretesto o di un impulso quasi involontario. E’ un po’ quello che  Lewis Carroll fa dire al suo Humpty Dumpty: quando uso una parola, essa vuol dire esattamente quello che decido io, né più né meno. 
Diceva Antonio Verri che la letteratura è un demone che si nutre di suoni, impensabili giochi verbali, metafore, analogie, frantumazioni di senso.
Ecco. Lui ha ha dato  forma a questa idea, operando costantemente uno scarto sia dalla comune grammatica della visione, sia dalle modalità strutturate di espressione.
Ho avuto il privilegio di leggere i libri di Antonio Verri prima che venissero pubblicati, e di volta in volta mi rendevo conto che la scrittura era sempre più governata  da una logica interna, rispondeva soltanto ai movimenti e agli impulsi ritmici, fonetici, fonosimbolici, che erano le parole a portare il pensiero e non il pensiero a determinare le parole. Come ogni grande scrittore, Verri era convinto che le storie non esistessero già ma che venissero generate da voci che venivano  da molto lontano e da profondità sconosciute. Allora lui cercava di ascoltare quelle voci, di decifrarne a volte l’allegria e a volte il dolore, a volte la rabbia e a volte la malinconia, a volte la felicità e a volte la disperazione.
Cercava di attribuire un ordine testuale alle schegge di senso, alla frammentarietà, di arginare con muraglie di parole la dissoluzione alla quale sono destinate le creature, di salvarle dall’oblio attraverso una rigenerazione quasi magica.
Perché la scrittura per Antonio Verri era come una magia. Anche se sapeva – sapeva perfettamente – che poi, alla fine del conto, alla fine del gioco, non restano altro che quaderni, uno stupore, il carico di stremate, sfibrate parole.

(In) a Sud del Sud dei Santi

ANTONIO VERRI
di Antonio Errico

Riprendo i libri di Antonio Verri come se stessi entrando in una casa che non frequento più da tempo: con la stessa malinconica memoria delle atmosfere, con la percezione dolceamara dei particolari, con la stessa sensazione di rivedere creature care che l’hanno abbandonata per andarsene in luoghi che non hanno pareti.
Non li leggevo più da quando ho scritto delle pagine su di lui in Angeli regolari e in Salento con scritture, pubblicati da Guitar nel 2002 e nel 2005.
Non li ho letti più forse perché  scrivendone ho fatto confusione tra l’esistenza e la scrittura, non per un errore di metodo ma perché nella scrittura di Verri quella confusione è connaturata. Chi volesse confrontarsi con l’opera tentando di mettere ordine in quella confusione, di separare le due sfere, potrebbe pure farlo, certamente, ma a condizione di smembrare un corpo, di lacerarlo, fino al punto da non riconoscerlo e correndo  dunque il rischio di sbagliare a identificarlo.
Leggevo i suoi libri e lo rivedevo, e rivederlo mi provocava nostalgia, e non volevo avere  nostalgia. Così non li ho letti più.
Adesso li riprendo dagli scaffali. Stanno accanto a quelli di Salvatore Toma. E’ giusto che i libri di chi si è fatto compagnia si tengano compagnia. Li rimetterò accanto.
Appena prendo il primo, mi ritrovo nella stessa confusione: le vite e le parole che fanno nodi difficili da sciogliere.
Il pane sotto la neve uscì nell’ottobre dell’Ottantatrè, secondo volume dei “Quaderni”  del Pensionante de’Saraceni. Il primo era stato Forse ci siamo di Salvatore Toma. 
Ma che cosa fu Pensionante de’ Saraceni bisogna dirlo. Uscì che  era il febbraio dell’Ottantadue. Noi lo si vendeva a cento lire – ma anche di meno, ma anche di più- per le strade di Lecce,  nelle stanze chiuse dell’università, nei vicoli stretti, tra i tavoli delle osterie. Furono pochi gli entusiasmi, in verità, per quella rivista di colore giallo ( talvolta era un giallo rossiccio, un colore di foglia marcia, qualche altra volta bianco) che avrebbe cambiato non solo il modo di fare militanza ( come si diceva) letteraria ma anche il modo di pensare ad un pubblico per la poesia, possibilmente diverso, più vasto, nuovo.
Qui: in Salento. Provincia della provincia. Finibusterrae.
“Pensionante” era figlio di un padre che visse poco ma che fu importante: “Caffè Greco”; e di una madre dall’esistenza antica, che ancora vive, che vivrà per molto: è un’idea, un profilo di nuvola bianca, oppure una zolla di terra che impasta Mediterraneo ed Europa, che coniuga la grotta di Badisco con il volo di Fra’ Giuseppe Desa da Copertino.
Chi c’era.
All’inizio la redazione di “Pensionante” fu nella soffitta di Angelo Fabbiano Via Sicilia, 17. Lecce.
( Da anni non vedo e non sento Angelo Fabbiano. L’ultima volta camminava con le mani e a gambe in aria per far smettere di piagnucolare una bambina).
Poi si trasferì nella casa di Piero Manni, sul viale Leopardi.
Dunque: chi c’era. Un indice dei nomi sarebbe troppo lungo; poi rischierei di dimenticare qualcuno. Io non voglio dimenticare nessuno. Niente nomi. Ma erano in tanti; eravamo in tanti. Si correva lungo una strada indicata da quel vecchio padre che  mandò una lettera in forma di poesia  intitolata “Ai neoteroi del Pensionante”: Vittore Fiore.
Diceva Vittore: “Entrate nella scena/ con una nuova poesia, velame/ che non ci rinchiuda nel giro/ che più non restituisce contadini,/ gerani, donne di tabacco, astrologiche specchie, i suoni/ nelle grotte e quelle paure/ cariche di profezie, prima/ che una prigione di clacson, di cemento,/ frantumi l’orecchino incandescente,/ e impazziscano i profeti,i rancorosi,/ proconsoli, i giustizieri,/ e la scrittura sia un corpo sfatto”.
“ Pensionante” ospitava firme con un futuro alle spalle e voci con un passato tutto da costruire, verso dopo verso, parola su parola.
Tutti quelli che c’erano ci credevano; tutti quelli che c’erano sono rimasti. Perché quel che conta nel mestiere della scrittura è credere e resistere.Quel che conta è spendersi, giorno per giorno. Anche disperdersi conta. Anche dissiparsi. Come il vecchio clown che resiste alle trasformazioni del circo e del pubblico del circo, tenendosi dentro il sogno segreto d’incantare i bambini. Molti giochi e giocolieri passano negli anni; lui resiste con il suo numero che ogni sera ripete ai bambini nuovi e ai vecchi bambini.
L’ultimo numero di “Pensionante” col formato del foglio esce nell’estate dell’Ottantaquattro.
Chiude per stanchezza.
Poi. Non era più estate ma faceva caldo, forse perché era caldo l’autunno, forse per il vino, l’anno era lo stesso ottantaquattro quando nella casa di Maglie di Aldo De Jaco il foglio di “ Pensionante” si trasformò in rivista pensata da una redazione rovesciata sul divano.
Esce nel gennaio dell’ottantacinque. Centosessantasette pagine. Diecimila lire. In copertina Pasolini a Calimera.
A Rina Durante ( a quella ragazzina che si svegliava di soprassalto con l’incubo che gli altri intorno a lei stessero scrivendo il capolavoro, e che poi il capolavoro lo scrisse davvero, lo pensò e lo scrisse in una corsia d’ospedale mentre sua madre moriva), a Rina Durante  che gli chiede di riflettere su quella rivista da due chili, Antonio Verri risponde che non ha programmi, non ha proponimenti per questo nuovo “Pensionante”. Scrive che ha solo vuoti, solo amarezze, sbandamenti, il candore di sempre, che non riesce a vivere in modo regolare, con le Pasque e i Natali al posto giusto. Dice che se proprio deve riflettere, allora capisce che per essere buon direttore di una rivista di letteratura, qui da noi, bisogna essere amico dei Turchi: di quei Turchi che vennero per darci la possibilità di trasformare Otranto in un mito.
Di “ Pensionante” rivista escono quattro numeri: uno straordinario su Vittorio Pagano. L’ultimo.
Nel dicembre dell’ottantasei, Verri esce con un numero di “Pensionante” come “Corriere internazionale”.
Da Maglie Totò Toma gli scrive: “ Caro Verri, Belloooo! il tuo Corriere (levriere) internazionale! (…) Le traduzioni da lingue straniere sono così chiare … che io l’ho letto tutto  in sei minuti e 40 secondi!”.
Con questo numero l’esperienza di “ Pensionante” si conclude. Ma Antonio Verri aveva creato intorno alla rivista un Centro culturale con lo stesso nome, una rete incredibile di rapporti nazionali ed internazionali, aveva gettato solide basi per il dopopensionante.
Con il Centro Culturale e con le edizioni del Dopopensionante uscirono i “Quaderni”, “Diaepositive. Scritture per gli schermi”, “Mail Fiction”; “Abitudini. Cartelle d’autore”, “Spagine”, “Compact Type”, “I Mascheroni” (con le edizioni Erreci) Ballyoo-letterature (una simulazione del Declaro, del libro impossibile, infinito, sconfinato) raccolto, impaginato sopra un grande tavolo ad Astragali.
Chi c’era. (Niente nomi. Potrei dimenticare qualcuno. Sto procedendo a memoria. Rinuncio a mettere mani nel groviglio di carte accumulate. Mi vengono molte parentesi.)
Da “Pensionante” nacquero altri giornali: “On Board”, “Titivillus”, e quell’avventura favolosa che fu “Quotidiano dei Poeti”:
Uscì per dodici giorni, distribuito nelle città italiane più importanti. Non sembrava vero allora; non sembra vero ora.
Dodici giorni di fila: dal 17 al 30 di maggio del novantuno.
Ventun’ anni fa. Nel secolo scorso; appena ieri.
Chi c’era.
Non c’era più Salvatore Toma. C’era Antonio Verri.

Nel Pane sotto la neve c’è l’idea della scrittura e  il lievito di tutto quello che Verri scriverà dopo.
C’è l’idea che ogni parola è adorabile: anche quella sciocca, anche quella usata, abusata, consunta.   C’è l’idea che tutto sia un miracolo. C’è il mito della  madre, quello di Otranto e dei  turchi, le ragazze mulacchione, la terra, la rabbia, il candore, le maschere, le figure allucinate.
C’è Stefan, un alter ego che proviene dall’universo joyciano.
C’è la combinazione di versi e di prosa, quella prosa che impasta Joyce con Vincenzo Consolo e Stefano D’Arrigo.
C’è quella ideologia della rivolta operata attraverso la poesia. Fate fogli di poesia, dice, spediteli ai politici, gabellieri d’allegria, a chi ha perso l’aria di studente spaesato, a chi ha svenduto lo stupore di un tempo, le ribalte del non previsto, ai sindacalisti, ai capitani d’industria, ai capitani di qualcosa.
Insultate il damerino, dice, l’accademico borioso, osteggiate i burocrati, i falsi meridionalisti.
Non alzatevi in piedi per nessuno, poeti.
Così dice. 
Poi ritorna alla poesia di una dolcezza sfarinata, nell’abisso dell’intimità, nel buio impenetrabile e irrimediabile in cui nascono le parole. Poi ritorna nell’ambito della relazione con se stesso e  con le creature dell’origine, e con se stesso e con quelle creature riflette sulla natura e sul senso dell’essere poeta, del fare poesia.
Allora dice: “ho potuto darti poco, madre/popo poco/ un sorriso di rivalsa/le risposte il tacicuore:/  mi chiedi a che serve poesia/ (parole stupide, madre, ma sonore/ di quelle che dilizian dint’oricla:/ poi tutto si consuma/poi tutto t’ossessiona,/ il pallore degli anni di livore/ il tempo che non basta…)/
Mi chiedi a che serve poesia/ non ti preoccupare, aggiusto tutto/ avrò senso/dormirai la notte,/da oggi, vedrai, calibro la rabbia/ le verdi stonature/ i guerci miei violini, i miei progetti:/ lascerò le alchimie, se vuoi/ i segni i sogni zoppi/ i percorsi di miglio profumato:/credimi, da oggi tesso i colpi/ che do al vuoto/ da oggi cambio/ da oggi non m’importerà/ del tremore del treno che mi assale/ di questa ossessione che è la vita/ avrò più tempo, starò tranquillo/ riprendo a stare contento a casa tua/ ( mi lavo fuori, madre/ dal grosso rubinetto sulla scala/ lo specchio è ancora là…/ è buona barba adesso/ il pelo chiaro del ragazzo/ che sospettava la scrittura il racconto/ il goffo, l’assoluto della vita/ il morso senza dolore dell’incanto)”.
Ho sempre pensato che il fondo e il fondiglio, la ragione e il sentimento, l’incipit e l’explicit   della poesia di Antonio Verri, si trovassero proprio in questi versi, usciti su “L’immaginazione” nel gennaio dell’Ottantaquattro.


Dopo Il pane sotto la neve, Verri pubblica Il fabbricante di armonia, La betissa, I trofei della città di Guisnes. Tutti testi di prosa, se si deve rispondere alla convenzione dei generi. Anche Bucherer l’orologiaio, uscito postumo a cura di Aldo Bello e di chi scrive queste righe, è un testo in prosa.
Ma è una prosa che rifiuta ogni convenzione di trama, d’intreccio, di stile, di forma, di linguaggio, per caricarsi di un ardire e di un ardore, e di un furore talvolta, che rispondono all’ansia di ricerca del Declaro, del libro dei libri, assoluto, metafisico. Impossibile. Ecco: la scrittura del libro impossibile, per Verri è l’unica scrittura possibile mentre all’orizzonte si delinea il panorama del terzo millennio.
La poesia ricompare nell’ultimo libro pubblicato in vita, Il naviglio innocente: testo composito che alterna i versi e la prosa, tramato da metalinguaggio, metapoesia.
C’è una nave. Probabilmente una proiezione de Le bateau ivre rimbaudiano. Oggetto, forma poetica, che naviga nel vuoto, nella dissolvenza dei generi, senza convenzioni.
C’è una nave. Forma inutile, vuota, muta. E’ la continua voce degli amici morti.
C’è quello che c’è sempre stato in ogni pensiero, in ogni pagina. C’è Stefan, ancora. La madre, ancora. La felicità e l’angoscia della poesia. Ancora.
“O scialba scialba poesia, guasto poema/ versi unici e inutili, non barbari/ mia madre non dormiva, mi chiedeva/io continuavo carico di neve: / è dolcissimo tornare, madre/ sai quanti ori venduti e in quanti posti/ e ragazze ondeggianti  e stazioni e grandi gruppi/ e quanti lunghi fiumi…/ Figlio  ricominci?”.
C’è una nave. Corpo sonoro, mnemonico, numerico. Forma vandalica, superflua, innocua, “ travolta da un carico di confettate parole”. Essa è il racconto, il corpo, l’evento teatrale, “ può pulsare e narrare o sdegnarsi/ oppure crescere tonda come un tempo/ le grandi comete/ oppure greve e muta procedere/ minuscola e vile…”.
C’è un viaggio in questo libro.

C’è sempre un viaggio in ogni libro di Verri. Movimenti in verticale, di discesa, di sprofondamento. Scandaglio del senso: del fondo del senso. Il senso sta nell’origine: della terra, di sé, delle storie.
Sta in ogni poesia, in ogni parola di una poesia, in ogni sillaba di ogni parola. Nel ritmo di un verso, nel suo fiato, nel suo respiro.  Nella riflessione – dolorosa-  che l’indicibile non si può dire, con nessuna forma, nessuna metafora. Che per l’indicibile non c’è lingua o c’è solo quella in cui parlano le cose mute, come dice Hugo von Hofmannsthal  nella Lettera di Lord Chandos.
Come ogni grande poeta, Verri sfida parola per parola la condizione dell’indicibilità con la coscienza disperata dell’insensatezza di  quella sfida. Ma non può fare che questo. Anche se sa che alla fine restano solo i quaderni, lo stupore, il carico di svuotate,  stremate, sfibrate parole.
C’è un viaggio in ogni libro di Verri. O piuttosto un correre continuo, con ali bianche, quasi senza volto, verso il solito albero d’oro, verso il solito vecchio profumato eldorado.

C’è chi dice che chiunque scriva una volta qualcosa, sia condannato a scrivere e riscrivere sempre quella stessa cosa. Probabilmente è vero. Come sono le prime conoscenze e le prime esperienze a conformare e a dare senso a tutta  un’ esistenza perché su di esse si innestano le conoscenze e le esperienze che vengono dopo, ad esse si rapportano e con esse si confrontano, allo stesso modo sono le prime esperienze di scrittura che aprono i varchi per le scritture successive.
Per Verri è stato così. Lui ha scritto e riscritto sempre Il pane sotto la neve. Si era lasciato – sapientemente- molte cose da dire: storie da continuare ( e da non concludere mai), personaggi da far crescere.
Ecco, appunto. Verri ha fatto crescere Il pane. Al modo – allo stesso identico modo – in cui si fa crescere un figlio. Ne ha raccontato quella crescita.
Ci sono libri che sono un destino. Non si pensano, non si cercano. Accadono, e dal momento in cui accadono non si può fare a meno di tenerseli, non si può fare a meno di rispondere ad essi , come si risponde al destino. 
Per tutto il tempo che ha scritto, per ogni parola che ha scritto, ha risposto al richiamo o al comando di quel libro. Tutto quello che ha scritto è stato un tentare di dare delle risposte alle domande che si era fatto in quel libro. Gli era rimasto nel sangue, anche quando in certe sue sperimentazioni sembrava che si fosse allontanato, come rimane nel sangue un figlio anche quando ce ne allontaniamo o si allontana.
In fondo ogni cosa dipende dal principio. Anche la scrittura dipende dal principio.
Alla principio della poesia di Antonio Verri c’è uno stupore. Alla fine c’è quello stesso stupore. In principio c’è innocenza e furore. Alla fine la stessa innocenza, lo stesso furore. Una sola cosa non c’era in principio e che alla fine si rivela, dopo essersi insinuata subdolamente: la paura del silenzio.
Verri alla fine aveva paura del silenzio che covano le parole.  

Sono rientrato nei libri di Antonio come se stessi rientrando in una casa degli affetti. Di tanto in tanto ho dovuto sforzarmi per trattenere la commozione.
Succede.


Nota Bibliografica ( con qualche appunto).
In vent’anni su Antonio Verri si è scritto molto. Qualche volta anche a sproposito, marcando i tratti  dell’autore e trascurando la squisita qualità dell’opera. E’ successa la stessa cosa con Salvatore Toma: strane coincidenze annodano a volte la vita e la morte degli amici.
Qui faccio soltanto alcuni riferimenti. Probabilmente dimentico qualcuno e me ne scuso con la certezza che non avrà dubbi sull’innocenza della dimenticanza.
Antonio Verri. Fabbricante di armonia, a cura di Fernando Bevilacqua, Luigi Chiriatti, Maurizio Nocera, Istituto Diego Carpitella, 1998.  
Il mondo dentro un libro, tesi di laurea di Simone Giorgino.
(Entrambi i testi contengono una preziosa bibliografia di e su Antonio Verri. )

Un saggio di Nicola Carducci, “Le audacie espressionistico- sperimentali di Antonio Verri”, in “Apulia”, giugno 1997; poi in Scrittori salentini tra coscienza del passato e letteratura, Pensa, Cavallino, 2005, pp. 339-353.
Antonio L. Giannone, L’attività letteraria nel Salento, in Ettore Catalano ( a cura di) , La saggezza della letteratura, Ed. Giuseppe Laterza,  Bari, 2005.
Rossano Astremo, Antonio Verri: Postmodern / Postmortem, in Musicaos.it; a cura  dello stesso, Omaggio ad Antonio Verri, Vertigine, Pensa, 2006.
Paolo Vincenti, “Per non dimenticare Antonio Verri” in  Di Parabita e di Parabitani, Il laboratorio, Parabita, 2008.
Fabio Moliterni, Il vero che è passato, Milella, Lecce, 2011, pp. 370-372
Da segnalare l’attività culturale del Fondo Verri, che significa Mauro Marino e Piero Rapanà: hanno idealmente continuato nell’opera di militanza,  aggregazione, di fare insieme, che ha connotato il lavoro di Verri.
Nello stesso contesto si colloca il contributo di Fabio Tolledi e di Astragali.
Da tenere in conto gli interventi di Aldo Bello e Salvatore Colazzo, Ennio Bonea e Donato Valli,  di cui si trovano i riferimenti nei volumi citati contenenti la bibliografia. 
Intenso e costante è stato  l’interesse di Maurizio Nocera per la figura e l’opera di Verri, tanto che è difficile selezionarne gli interventi. Ma per chiunque voglia interessarsi di Verri, i lavori di Nocera risultano fondamentali.
Non si inserisce nella bibliografia una fonte orale, ma se si potesse si dovrebbe citare Fernando Bevilacqua per il lavoro appassionato di diffusione dell’opera di Verri, per l’appassionato opporsi all’offuscamento della sua memoria.  



ANTONIO ERRICO è nato in provincia di Lecce dove vive e lavora come dirigente scolastico di un liceo.  Ha pubblicato libri di narrativa e di saggistica: Tra il meraviglioso e il quotidiano ; Favolerie ; Il racconto infinito. Saggio su Luigi Malerba ; Fabbricanti di sapere. Metodi e miti dell’arte di insegnare ; Angeli regolari ; L’ultima caccia di Federico Re ; Salento con scritture ; Viaggio a Finibusterrae;  Stralune ; Le ragioni della passione. Approdi e avventure del sapere; L’esiliato dei Pazzi;  saggi e racconti in volumi collettivi.  Ha curato l’antologia Poeti a Finibusterrae , edito dalla Provincia di Lecce, e la riedizione di Secoli fra gli ulivi di Fernando Manno .
Collabora a quotidiani e periodici, a riviste letterarie e scolastiche. 


lunedì 14 ottobre 2013

Aldo De Jaco e Antonio Verri, un dialogo

De Jaco in un disegno di Santa Scioscio



 a cura di Maurizio Nocera
«Sta nelle nuvole il nostro mestiere
e aspetta come un figlio
d’essere partorito»
(Aldo De Jaco)

Aldo De Jaco in una fotografia di Claudio Longo

Aldo De Jaco (Maglie, 23 gennaio 1923 – Roma, 13 novembre 2003). Figlio di ferroviere, per questo amava i treni e le stazioni ferroviarie. Nel 1942, si iscrisse ad Architettura a Napoli, ma non si laureò mai. Nel 1944, inizia la sua attività di giornalista presso il quotidiano napoletano «La Voce». Visse a Napoli fino al 1963, poi a Roma, sempre militando nel Pci e, per questa sua attività politica, fu più volte rinchiuso in carcere (una prima volta a Napoli, ed una seconda volta (1967) ad Atene, durante la dittatura dei colonnelli, perché manifestava per la libertà degli scrittori antifascisti e democratici greci.
De Jaco esercitò la sua attività  professionale di giornalista presso «L’Unità», «Paese Sera» e fu corrispondente e inviato per «il Contemporaneo», «Rinascita», «Prove», «Le ragioni Narrative», «Cronache Meridionali», «La Battana». Scrisse anche su molti altri giornali nazionali e salentini. Per alcuni decenni fu Segretario generale del Sindacato Nazionale Scrittori. Ha scritto libri di storia, di narrativa, di poesia, molti dei quali tradotti anche in Germania, Urss, Bielorussia, Grecia, Bulgaria, Romania, Cecoslovacchia e Cina. Ha scritto la sceneggiatura del film Quant'é bello lu murire acciso di Ennio Lorenzini e, per la Rai Radio Uno, collaborò alle venti puntate di Voci e volti della questione meridionale. Per la televisione, la Rai ha trasmesso Opere Teatrali con il titolo Nella città di mezzo, opera in due tempi. Del libro di De Jaco La città insorge: le quattro giornate di Napoli, del 1956, il regista Nanni Loy si ispirò per il suo film Le quattro giornate di Napoli (1962).

Opere
Racconto del Sud, Edizioni Sud, 1946 (non distribuito).
Le domeniche di Napoli, Einaudi, Torino 1954. Premio Salento (opera prima).
La città insorge : le quattro giornate di Napoli, Editori Riuniti, Roma 1956.
Una settimana eccezionale, Mondadori, Milano 1959. Premio Settembrini (Mestre).
Viaggio di ritorno, Einaudi, Torino 1966. Premio Castellamare.
Il brigantaggio meridionale: cronaca inedita dell'Unità d'Italia, Editori Riuniti, Roma 1969. Riedito nel 2005 da Editori Riuniti.
Colonnelli e resistenza in Grecia, Editori Riuniti, Roma 1970.
Antistoria di Roma capitale : cronaca inedita dell'Unità d'Italia, Editori Riuniti, Roma 1970.
Gli anarchici: cronaca inedita dell'Unità d'Italia, Editori Riuniti, Roma 1971 (Riedito nel 2006 da Editori Riuniti)
Di mal d'Africa si muore : cronaca inedita dell'Unità d'Italia, Editori Riuniti, Roma 1972.
Inchiesta su un comune meridionale : Castelvolturno, Editori Riuniti, Roma 1972.
I socialisti : cronaca inedita dell'Unità d'Italia, Editori Riuniti, Roma 1974.
Con finale in prigione, Marsilio, Venezia 1975.
Vocazione agit prop, Marsilio, Venezia 1975. Premio Calabria.
Diario tre esse 1975-76. Con testi di Aldo De Jaco. Società editrice unitaria sindacale, 1975.
I giorni della libertà : diario di tutti, 1943-1947. Editrice sindacale italiana, 1076.
Ieri oggi domani la cooperazione. Editrice Cooperativa, 1979.
Diario di un ospite ingrato, Editrice Ciminiera, 1981.
Napoli monarchica,milionaria,repubblicana, Newton Compton Editore, Roma 1982.
Nel giardino del cattivo amministratore. Levante, Roma 1983.
Nica libre : ovvero visita a una giovane rivoluzione. Il Ventaglio, Roma 1984.
I cinque anni che cambiarono l'Italia. Diario fotografico di noi tutti : 1943-1947, Newton Compton Editori, Roma 1985. Premio Fregene e Premio Presidenza del Consiglio.
Stazioni di posta. Edizioni Il Laboratorio, Parabita 1986. Premio Napoli.
La casa di tufo. Erreci edizioni, Maglie 1986.
Opere teatrali : il ciclo dello "Scialle nero" e il ciclo de "Il grande vecchio". Todariana editrice, 1989.
Dodici lettere da Varna. JN editore,  1990.
Il tappeto persiano. Erreci edizioni, Maglie 1992.
La città insorge : le quattro giornate di Napoli. Monteleone, Roma 1995.
In viaggio con Prodi, (A.De Jaco - M.Nardi). Monteleone, Roma 1996.
Napoli, settembre 1943. Dal fascismo alla Repubblica. Vittorio Pironti Editore, Napoli 1998.
Briganti e piemontesi : alle origini della questione meridionale. Rocco Curto Editore, 1998.
Fine di un gappista : Giorgio Formiggini e lo stalinismo partenopeo, Marsilio, Venezia 1999.
Un po' di Napoli in tre racconti. Vittorio Pironti Editore, Napoli 1999.
1943. La Resistenza al Sud. Cronaca per testimonianze. Argo, Lecce 2000.
Nc'era na fiata na muscia nchiata. Edizioni dell'U.N.S.
La valigia di cartone. Viaggio (negli anni '60) nell'Europa degli emigrati. Bleve, Tricase 2000.
Dopo Teano. Storie d'amore e di briganti. Lacaita, Manduria 2001.
Lungo viaggio di ritorno, Manni editore, Lecce 2002.
C'era una volta - poesia come memoria, Kurumuny, Calimera 2004.

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ALDO DE JACO E ANTONIO L. VERRI UN’AMICIZIA FONDATA SUI LIBRI
Maurizio Nocera

Aldo De Jaco (Maglie 1923 - Roma 2003) e Antonio L. Verri (Caprarica di Lecce 1949-1993) si conobbero nell’ambito delle attività del Sindacato Nazionale Scrittori, di cui presidente era il giornalista magliese, all’epoca corrispondente di «Cronache Meridionali», «l’Unità», «Vie Nuove», «Rinascita», «Produzione & Cultura», e contemporaneamente anche scrittore di alcuni tra i libri più belli scritti su e intorno al Mezzogiorno d’Italia, tra cui Racconto del Sud (Napoli 1946); La città insorge/ Le quattro giornate di Napoli (Roma 1956, Vibo Valentia 1995); Gli anarchici (Roma 1971); Antistoria dell’Italia unita/ Il brigantaggio meridionale (Roma 1980); La casa di tufo (Maglie 1985); Stazioni di posta. Poesie (Parabita 1986); Il tappeto persiano (Maglie 1992); La Resistenza nel Sud (Lecce 2000); Lungo viaggio di ritorno (Lecce 2002); C’era una volta. Poesia come memoria (Calimera 2003).
Oltre cinquanta sono stati i libri pubblicati da Aldo De Jaco a partire dai famosi “Gettoni Einaudi” scelti da Elio Vittorini e Italo Calvino. Per lungo tempo fu presidente del Sindacato nazionale scrittori (Sns). 
Quando Antonio L. Verri conobbe per la prima volta Aldo De Jaco, aveva scritto già alcuni dei suoi libri più importanti, altri li stava scrivendo, tra questi: Il pane sotto la neve (per Otranto, per occasioni) (1983); Il fabbricante di armonia Antonio Galateo (1985); La cultura dei Tao (1986); La Betissa. Storia composita dell’uomo dei curli e di una grassa signora (1987); I trofei della città di Guisnes (1988); Gli atlanti di Ar (1990).
Io li conoscevo entrambi, anzi mi pare di ricordare che a presentare Aldo ad Antonio, forse fui proprio io, ché già da tempo ero socio del Sindacato Nazionale Scrittori e conoscevo il suo presidente per via della mia e sua attività politica.

giovedì 26 settembre 2013

Le ragioni letterarie di Antonio Verri di Nicola Carducci da Apulia

Antonio Verri, un provinciale insofferente

"Parla del tuo paese e sii universale" è un aforisma applicabile, senza enfatizzarlo, al nostro Antonio Verri (1949-1993), il "provinciale" di Caprarica di Lecce.
La "salentinità", oggi un po' troppo proclamata, non gli fa da remora, per i suoi slanci extra fines; essa non è per lui che un privilegiato "punto di vista". Ora che è possibile abbracciare d'un colpo la sua non esigua produzione letteraria, ce ne rendiamo sempre meglio conto. Anzitutto nei supporti ideologici, innervati in complesse esperienze di vita e di cultura. Della sua partecipazione alla sessione 1986 degli "Incontri Poetici Internazionali", svoltasi nel settembre a Yverdon, in Svizzera, per citare l'evento più significativo del suo contatto con esperienze d'oltralpe, ha redatto egli stesso un vivace resoconto in dieci lettere, di alcune delle quali noi qui ci avvarremo per individuare i postulati della sua poetica.
Altro tramite di scavalcamento fra tradizione e sperimentalismo è la presenza di autori di varia nazionalità nei fascicoli della sua rivista Pensionante de' Saraceni, nell'ultimo dei quali (gennaio 1987) compaiono argentini e brasiliani, inglesi e svizzeri, islandesi e scandinavi, oltre agli italiani. Vi si affollano come in un pùllman, diretto verso una "internazionale della poesia". Né va taciuto, al riguardo, un decisivo dato esistenziale: l'esperienza giovanile in una "Germania kafkiana", a Sciaffusa, "a due passi dal Reno"; e qui, da uno spagnolo, compagno di lavoro, ode parlare per la prima volta di Lope de Vega, e legge Hofmannsthal, e dalle conversazioni con alcuni conterranei scopre Antonio De Ferrariis: nozioni e suggestioni che si sedimentano e già fermentano in una "voglia della letteratura".  

L'intero articolo e su:

martedì 17 settembre 2013

Per Antonio Verri tra Carosino e Taranto

Seconda edizione di "Parlate di Luce. Rassegna di Poesia Abitata"
dedicata ad Antonio Verri 19. 20. 21. 22 settembre 2013

La locandina di Parlate di luce

Dopo la stimolante apertura con il workshop del prof. Livio Sossi "Abitare la scrittura", la Rassegna di poesia abitata ideata da Biagio Lieti torna dal 19 al 22 settembre tra Taranto e Carosino. Giunta alla sua seconda edizione, Parlate di Luce è quest'anno dedicata ad Antonio Verri e ospita personalità del calibro di Franco Arminio, Rossella Tempesta, Antoine Cassar, Elisabetta Liguori, Daniele Di Maglie, Mauro Marino, Fabio Moliterni, Rossano Astremo, Simone Giorgino, Orodè Deoro, Azzurra Cecchini e Oh Petroleum.

Il workshop del prof. Livio Sossi sulla scrittura per ragazzi "Abitare la scrittura" ha introdotto il 6 e 7 settembre scorso la seconda edizione di "Parlate di Luce. Rassegna di Poesia Abitata". Nello scenario del Palazzo Ducale di Carosino, la due giorni si è chiusa con la lettura libera dei testi prodotti durante le giornate di lavoro e un dibattito con i partecipanti al corso e i poeti di "Cieli Bambini. Antologia della poesia italiana contemporanea per ragazzi" (Secop, 2012).

L'apertura della rassegna è prevista per giovedì 19 settembre: nella mattinata partiranno i laboratori per gli studenti dell'Istituto “Comprensivo A. Moro” curati da Lucia Frascella, Melania Longo e Alessandra Guttagliere, che continueranno fino a sabato 21 settembre. Nel pomeriggio il pubblico è invitato a radunarsi alle ore 17,30 presso il Palazzo Ducale di Carosino, per una passeggiata per il centro storico del paese che permetterà di immergersi in una vera e propria azione cittadina poetico-visiva, con le installazioni "La resa alla Poesia" e "Omaggio al fantasma" di Alessandra Guttagliere, la video-istallazione "Forte Laclos" di Gianluca Marinelli, "Incontro con Angela" installazione per 10 testi e due generazioni di Gioia Perrone e la poeta nomade Maira Marzioni che con la sua "estensione cardiaca", la macchina da scrivere, si farà praticante di doni e attenzione attraverso la poesia. Presenze e stimoli che resteranno fruibili per tutta la durata della rassegna da balconi, abitazioni e strade.

Venerdì 20 settembre si entrerà nel cuore della Rassegna, presso il Cantiere Maggese nel borgo antico di Taranto, con la tavola rotonda "Il fabbricante di Armonia" che, in occasione del ventennale della sua scomparsa, metterà al centro della parola Antonio Verri, poeta e instancabile animatore culturale. Ad approfondire l'opera e la vita del poeta, la presentazione dei libri "Con gli occhi al cielo aspetto la neve" di Rossano Astremo (Manni, 2013) e "Antonio L. Verri. Il Mondo dentro un libro" di Simone Giorgino (Lupo, 2013). All'incontro, reso possibile anche grazie alla collaborazione della Cooperativa Carisma, interverranno oltre ai due autori, anche Lorenzo Madaro, Mauro Marino e Fabio Moliterni. Chiuderà la serata tarantina, la performance per voce e pittura di Simone Giorgino e Orodè Deoro.

La serata del 21 settembre rappresenta una delle novità di questa edizione: voci solo femminili realizzeranno un reading di propri testi in uno dei teatri spontanei di Carosino, Largo Dante Alighieri. Gioia Perrone accoglierà Elisabetta Liguori, per poi passare il testimone a Rossella Tempesta per un reading tratto da "Nuovi poeti italiani n. 6" (Einaudi, 2012). Durante la serata Azzurra Cecchini realizzerà delle immagini ispirandosi alle letture. Chiuderà il cantautore Daniele Di Maglie, con parole e musica.

Domenica 22 settembre la manifestazione si terrà presso il Sagrato della Chiesa di San Francesco, sempre a Carosino. Marco Inguscio aprirà la serata al poeta maltese Antoine Cassar, per disegnare un mosaico di lingue, oltre che di parole. Mentre Azzurra Cecchini testimonierà anche questa serata con i suoi disegni, Franco Arminio concluderà i reading con le attese letture dal suo ultimo libro "La punta del cuore". Il concerto di Oh Petroleum sarà l'ultima delle voci dell'edizione 2013 di Parlate di Luce.

Questa seconda edizione segna un importante punto di svolta nell'identità della Rassegna: pur mantenendo lo stesso curatore e la medesima qualità del programma, vede nei singoli abitanti e nelle associazioni presenti sul territorio (genuinamente indipendenti) i principali sostenitori della manifestazione. Sono loro ad assumersi la responsabilità della riuscita dell'evento, organizzando i luoghi che ospiteranno gli incontri ed ogni aspetto del tessuto urbano coinvolto, ospitando poeti e artisti o le loro opere nelle loro case, cucinando. Anche la sostenibilità economica della rassegna ha avuto uno straordinario contributo "dal basso": la sua realizzazione è, infatti, possibile grazie agli sforzi dell'Associazione Lab Lib, promotrice dell'iniziativa, e all'impegno concreto di singoli cittadini e aziende locali, che hanno offerto i loro servizi e partecipato alla campagna di finanziamento diffuso, che si è aggiunta al finanziamento ottenuto da Regione Puglia e da Puglia Promozione attraverso il PO FESR 2007-2013 azione 4.1.2 "Investiamo sul vostro futuro".

Violazioni in marasma. Per Francesco Saverio Dòdaro

Performance per voci corpi suoni poesia e visualità
di Francesco Aprile, Giuliano Ingrosso, Teresa Lutri
agosto-settembre 2013

Fondo Verri, Lecce, 11 settembre 2013
Francesco Aprile (reading, poesia verbo-visiva)
Giuliano Ingrosso (suoni, reading)
Teresa Lutri (reading, mime corporel)
Marco Monaco (suoni)
Quentin Yvinec (mime corporel)

Cut-up liberamente tratto dai testi e dalla ricerca di Francesco Saverio Dòdaro



Pronto? Pronto, sì. Quest'estate l'acqua ha irrigato i tuoi boschi di vetro.
Quest'estate le rose sono nere.
Quest'estate io parto.
Pronto? Pronto? Pronto? Pronto?
Oh, miei cari, io, io parto. Parto. Vado nell'Osthrakien. Parto. Vado a gettare nel cielo, alla mia innamorata, la freccia d'acero accesa.
Mia cara, raggiungerò il tuo cuore. Alla decima ora, di uno di questi impossibili millenni.
Cessato  allarme.
Marasma.
Matà
    Matà
        Matà
Ma…tà
Cessato  allarme. Il bombardamento è  finito.
Un giorno qualsiasi, di un anno qualsiasi, su uno scafo qualsiasi. Dal silenzio di quattromila anni, nel grande oceano negativo, piangendo.
Ora bisogna contare i morti.
Recuperare i vivi, sepolti.
La strada, ciò che ne è rimasto, si popola di spettri. Pallidi. Silenziosi. Lenti. Non un urlo, un grido, un pianto.
Qui la morte è come il sole, la luna, il mattino, la sera.
Ospedale psichiatrico. Il viale. Non è proprio un viale, ma lo chiamano così. Tre pini rinsecchiti, un cespuglio di oleandri, senza fiori.
A destra
                il padiglione uomini,
a sinistra
                il padiglione donne.
Padiglione, sa tanto di Fiera del Levante.
Ma sì,
           fiera dell'altro mondo. Dell'angoscia. Della disperazione.
Si vende, si sente, si offre di tutto.
"Mi dai mille lire. Mi dai mille lire. Mi dai mille lire".
                                                                                             Mi sta perseguitando.
Ha una giacca che sembra un cappotto. I pantaloni che lasciano vedere le calze, rosse. Sono più corti di almeno venti centimetri.
Gli do mille lire. Sghignazza, sorride, va via.
Scende il silenzio. Mi guardo attorno. Tutto è squallido.
Sembra una scena da Dopo il bombardamento. Voglio denunciare. Mi sento rivoluzionario. Il silenzio è rotto da un urlo, feroce, penoso, lacerante: "Mamma".
Mamma
               Mamma
Mamma
Mam…ma
E le possibili rivolte.
I riflettori illuminano la scena. I personaggi. Sento le urla. Il mio cuore s'oscura.
Risento l'eco: "Non rinuncio alle aspirazioni di bambino".
E penso ai ragazzi. Alla loro purezza.
A chi allatta ancora il proprio puer. Il proprio angelo.
Gli angeli si cercano.
Il sessantotto è fallito. L'immaginazione è fallita.
Voglio tornare al grande vecchio. Al brivido della sua ombra, incontrare i sognatori. La poesia.
Il puer. Ancora la poesia.
Anni sessanta-settanta.
                                           Erano gli anni di piombo.
E della controcultura:
                                       chi pubblicava con editori era un reazionario.
La poesia, manoscritta o ciclostilata, si veicolava o per posta, alla californiana, o per strada: nelle piazze, all'ingresso delle università, dei licei. A volte nelle aule, interrompendo la lezione. Volantinaggio poetico, incursioni semiologiche.
Gli scontri erano frequenti.
Le mazze, le manganellate lasciavano segni.
                                                                               Al sangue, all'osso.
I miei sono stati devastanti. Trent'anni di sofferenze. E di interrogativi.
Chi sono? Passo lunghi periodi senza memoria, senza passato: senz'anima.
Mi guardo allo specchio: a sinistra il cranio, lucido, con una lunga cicatrice, mal cucita; a destra, ciuffi di capelli, qua e là. Mi faccio schifo.
Ma chi sei? "Un poeta che ha amato, che ama la poesia", dice la psichiatra.
Ed io ripeto: "Un poeta che ha amato, che ama la poesia".
Nei momenti di lucidità penso che essere stato sempre in prima linea per affermare la priorità dell'afflato, che aver dato il mio cranio alla poesia, sia stato bello, magico.
Come dare a un bambino, sul prato, il vento, e una girandola. O una carezza.
Come respirare il profumo del grano, quando è verde.
Come vedere sulle Murge, gli alberi in fiore.
Come ricordare il tempo materno. Riascoltare i silenzi. E la voce. Il canto.
La madre, la madre il canto, le Murge in fiore. Fichi e freddo.
Pastore. Vastar. Vastra. Vasto. Vastità. Il re della Murgia.
Un secchio di resti per il cane. Povero cane.
Il re della Murgia. La castigata per cavallo.
Lana morbida e calda calda calda. Calda.
Le mani fredde. Le mani calde.
Le mani gelate. Tante mani gelate.
L'occhiello è al metano. Il catenaccio chiude l'angoscia.


La ricetta la mmane, a maggio.
Il boccone del re: un fiorone svuotato, poi riempito di latte, ed è subito quaglio.
Il boccone del re. Ed è subito sera.
Domani, a sera, bombarderemo la città.
Vendita promozionale. Un camion di soldati morti.
Vendita promozionale. I gelsomini della Murgia.
Le mimose del Serrone. Le stelle, della notte di natale.
Bombarderemo la città.
L'Adriatico s'incendia.
Le rose dell'Adriatico.
Dalle macerie una mano parla. Un cumulo di pietre. Sette piani di pietre.
Una mano che sfiora e poi parla.
La pelle chiarissima. Le unghie bellissime. Le dita bellissime.
La vena sussurra l'amore.
Il tepore di una notte di luna e il silenzio segna l'historia.
Bombarderemo la città.
Ventuno esplosioni.
                                   Ventuno navi.
                                                            Ventuno paure.
                                                                                        Ventuno lune.
                                                                                                                 Ventuno morti.
Ventuno nascite.
                               Ventuno singhiozzi.
                                                                   Ventuno solitudini.
E proteste e fantasmi e voci e urla.
Ventuno rose per te. Il tepore di una notte di luna. Il silenzio. I gelsomini della Murgia.
Il castello, la piazza. I profumi della Murgia. La pagina inchiostrata dalla rosa.
rosa rosa rosa
Non può più contenere la disperata disperazione del segno poetico.
Sono illeggibili l'occhio.
Il corpo.
Ma non le labbra di Man Ray.
Nè il suo cielo.
Nè l'infinita infinitudine della sua dolcezza.
ttutto sugli schermi. ttutto.
poi l'eco.
ttutto
           ttutto
                      ttutto
ttut...to

Le risonanze buie del sonno. Imposto. E tutto il malessere. A venire.
Tutto.
Tutto.
Tutto.
Ho voluto capire il tradimento.
Ho parlato con medici, infermieri, parenti.
Ho rovistato cassetti, depositi. Ho smembrato ricordi, coscienze.
Ho interrogato schede, archivi, carte.
Poi ho scritto sulla parete della mia stanza, dal pavimento al soffitto: "Vigliacchi".
L'ho scritto con il verde.
Un mio amico newyorkese, poeta di frontiera, è rimasto stravolto da quella scritta, pur non conoscendo le spinte che l'hanno prodotta.
Ha detto che è il più bel segno di poesia concreta  mai visto. Violento. totale.
Vigliacchi.
A quanta gente è indirizzato quel plurale! Vigliacchi. Vigliacchi!
La stanza era squallida. Dipinta di verde.
Dieci sedie sgangherate.
Un vecchio televisore per le videocassette rock: cinema alternativo. 
Fogli sessantottini, ingialliti. Poesia ciclostilata. Poesia minima.
Qualche altro inchiostro.
Sguardi impietriti. Il pallore dei volti mi ricorda i sanatori di una volta.
Sono attratto da un femminile di età indefinibile. Lineamenti aristocratici. Triste.
Gli occhi hanno una profondità galattica. Cerco di raggiungerli. "Da dove vengono, da dove vieni. Tu, devi essere nata il 10 agosto".
Cumuli di lontananze lungo i suoi gesti, ad accarezzare.
Lungo i Navigli la sera scivolava sulle cose.
Tutto era lento, afono.
La rosa nascosta di Missoni profumava delicatamente la nebbia.
L'ora era ferma sull'oblio.
Addio, pagine, parole amate, gesti ammassati nei depositi, sguardi, primi piani di pelle solcata dal rimmel, di pallore, pallore di cipria.
Primi piani di polvere, di rughe della memoria, dell'anima.
Primi piani di pizzi, di sete, di neri, d'incanti.
Primi piani di rose dischiuse, di petali, di grazia, d'infinita dolcezza, di mari, d'oceani.
Notte delle lune d'acciaio, delle partenze, delle fughe, dell'aquilone smarrito.
Notte dei latrati, delle paure.
Notte della solitaria solitudine.
Notte delle stelle, del Carro, dell'Orsa.
Notte dei treni, delle stazioni, della sete.
Notte dell'antica pietra, della soglia.
Notte della notte.
Primi piani di rose dischiuse.
Di pizzi, di sete, di neri, d'incanti, d'abbracci, di carezze, di baci, di baci, di baci...di baci.
Le lontananze accarezzavano i suoi gesti.
Lungo i Navigli la sera scivolava sulle cose.
Tutto era lento, afono.
Una sirena, d'improvviso, sconvolse la quiete.
La nebbia si diradò scoprendo sui muri labbra, rossi, sete, case e la Scala, il Coro, la Banda, le luci del vecchio canale.
Primi piani di polvere, di rughe della memoria, dell'anima.
Primi piani di pizzi, di sete, di neri, d'incanti.
Primi piani di rose dischiuse, di petali, di grazia, d'infinita dolcezza, di mari, d'oceani.
Notte delle lune d'acciaio, delle partenze, delle fughe, dell'aquilone smarrito.
Sono attratto da un femminile di età indefinibile. Lineamenti aristocratici. Triste.
Gli occhi hanno una profondità galattica. Cerco di raggiungerli. "Da dove vengono, da dove vieni. Tu, devi essere nata il 10 agosto".
Cumuli di lontananze lungo i suoi gesti, ad accarezzare.
Pronto? Pronto? Pronto?
Lo scirocco soffia sulla malinconia, e sulla pagina violata.
Il giorno più bello della mia vita.
Il profumo della campagna. Il grande camino, ed il corpo bianco, delicato. Profondo: sino all'anima. La casa dell'anima. Tra i ruscelli della morte e le dolci sorgenti del lutto.
Il rumore degli occhi. Quante cose scivolano sulle pieghe clandestine.
Il galletto gira, gira, gira. Lo scirocco soffia sulla malinconia.
Pronto? Pronto?
Pronto? Pronto, sì. Quest'estate l'acqua ha irrigato i tuoi boschi di vetro.
Quest'estate le rose sono nere.
Quest'estate io parto.
Pronto? Pronto? Pronto? Pronto?
Oh, miei cari, io, io parto. Parto. Vado nell'Osthrakien. Parto. Vado a gettare nel cielo, alla mia innamorata, la freccia d'acero accesa.
Mia cara, raggiungerò il tuo cuore. Alla decima ora, di uno di questi impossibili millenni.
Senza chiedere in conto la notte alla solitudine.
Non si interroga la solitudine, la mancanza.
La mia adolescenza è stata musicata dai fischi dei treni, incipit di spartiti mai ultimati.
Le rotaie erano i miei pentagrammi.
Sui pennacchi di fumo delle locomotive scrivevo le parole e lo swing della protesta.
Poi, ho cercato di capire le rughe della sofferenza, della malinconia, il lutto di un adolescente.
Ho interrogato i frammenti platonici.
Ma non c'è l'amore per tutto questo?
Ma non c'è l'amore per tutto questo?
Da sessant'anni m'interrogo. Ma non si chiede alla notte il conto delle solitudini. Delle mancanze.
Pronto? Pronto?
Pronto? Pronto, sì. Quest'estate l'acqua ha irrigato i tuoi boschi di vetro.
Quest'estate le rose sono nere.
Quest'estate io parto.
Pronto? Pronto? Pronto? Pronto?
Oh, miei cari, io, io parto. Parto. Vado nell'Osthrakien. Parto. Vado a gettare nel cielo, alla mia innamorata, la freccia d'acero accesa.
A chi ha voluto l’ammantatura rosa, come missoni.
Il fiore rosa, come missoni.
E la stanza rosa.
A chi ha voluto che curassi la sua malanza con una rosa.
Ho tinto la strada di rosa
Il mare di rosa
Il cielo di rosa
E la pagina, di rosa
Rosa antico
Chiaro
Chiarissimo
Bianco
Bianco memoria
Memoria di rosa
Pronto? Pronto?
Pronto? Pronto, sì. Quest'estate l'acqua ha irrigato i tuoi boschi di vetro.
Quest'estate le rose sono nere.
Quest'estate io parto.
Pronto? Pronto? Pronto? Pronto?
Oh, miei cari, io, io parto. Parto. Vado nell'Osthrakien. Parto. Vado a gettare nel cielo, alla mia innamorata, la freccia d'acero accesa.
Mia cara, raggiungerò il tuo cuore. Alla decima ora, di uno di questi impossibili millenni.
Quando il sole s’imbuca nella sera, ogni parete, ogni muro diventa quaderno per le lontananze.
S’incanta. S’incontra: ombre, respiri, voci.
Mia cara, raggiungerò il tuo cuore. Alla decima ora, di uno di questi impossibili millenni.
In quella prima decade di maggio.
Quando la rugiada bagna le prime rose
un giorno qualsiasi di un anno qualsiasi
alla decima ora, di uno di questi impossibili millenni.

Testi utilizzati:
Sconcetti di luna, in «Compact Type. Nuova Narrativa», Edizioni Pensionante de’ Saraceni, Caprarica di Lecce 1990
Tracce di un discorso amoroso, in «Diapoesitive. Scritture per gli schermi», Edizioni Pensionante de’ Saraceni, Caprarica di Lecce 1990
Reparto “P”, in «Pieghe narrative», Conte Editore, Lecce 2001
All’ombra del grande vecchio, in «Pieghe narrative», Conte Editore, Lecce 2001
I colombi della clausura, in «Pieghe narrative», Conte Editore, Lecce 2001
Vento, vento, in «Pieghe narrative», Conte Editore, Lecce 2001
Rosa virginale, in «Pieghe poetiche», Conte Editore, Lecce 2001
L’addio alle scene, in «L’addio alle scene», Argo, Lecce 1996
Vukovar. 26 ottobre, in «L’addio alle scene», Argo, Lecce 1996
Giornalista d’assalto, in «L’addio alle scene», Argo, Lecce 1996
La stanza dipinta di verde, in «L’addio alle scene», Argo, Lecce 1996
Il buco nero, in «L’addio alle scene», Argo, Lecce 1996
Cadono le ultime mimose, in «L’addio alle scene», Argo, Lecce 1996
Navigli, in «Mail Fiction. Free Lances», Edizioni Pensionante de’ Saraceni, Lecce 1991
Uscita in marasma, in «Carte letterarie», Edizioni Astragali-Eufonia Multimedia, Lecce 2009
Riflessioni. Per Ugo Carrega, in «Disperate del XX secolo», Il Laboratorio, Galatina 1989
Dichiarazione d’innocenza, in «Locandine letterarie», Il Raggio Verde, Lecce 2005
dis/adriatico, in «Spagine. Scrittura infinita», Edizioni Dopopensionante, Galatina 1991