giovedì 27 giugno 2013

Di Antonio Verri e di Giovanni Giancane

 
Antonio L. Verri in una fotografia di Fernando Bevilacqua virata in giallo-rosso

Incontro con l'uomo del fuoco
di Maurizio Nocera

Probabilmente fu durante gli anni ‘80 che avvenne il primo incontro tra Antonio L. Verri – «diletto figlio dalle mani d’oro», diceva mamma Filumena – e Giovanni Giancane, l’artista agricoltore di Monteroni, noto per la costruzione dei gioielli dell’alchimia raku (preziosissime ceramiche, cammei d’argilla, “pietre” luminose, il cui risultato si ottiene grazie ad una laboriosa ricerca di laboratorio. Raku – è parola giapponese del 1500 e proviene dal cognome del creatore della tecnica – che letteralmente significa «gioire il giorno», vivere cioè in armonia con l’umanità e la natura, come accadeva al tempo degli antichi samurai).
Giancane è conosciuto anche per la sua capacità di dominare le fiamme. Per questo molti lo chiamano «l’Uomo del fuoco del Salento». Qualche anno fa il regista Piero Cannizzaro gli ha dedicato un interessantissimo cortometraggio ancora oggi mandato in onda dal programma Geo e Geo di Rai3.  
Ma torniamo all’incontro tra i due, il cui tramite sicuramente fu il comune amico Antonio Toma, purtroppo scomparso recentemente, e meglio conosciuto a Lecce come “il già costruttore di grandi palazzi” che, a quell’epoca viveva, quasi come un principe del verde, in un bosco di pini e di acacie sulla strada che da Lecce porta ad Arnesano.  
Il percorso che io e Verri facevamo per raggiungere Monteroni era quello di sempre. Anche quella in fondo era la nostra strada del cuore, quella infiorata di margheritoni gialli e di papaveri rossi; la strada avvolta dai profumi dei caprifichi e dell’odore acre del miglio stompato. Era, insomma, quella strada da millenni calpestata dai piedi dei nostri padri messapi, appena appena battuta da quelli, leggeri come le piume, delle nostre madri curve sulla storia. Era la via Malemnia, quella che Badisco, cioè dal centro del nostro sud del sud del mondo, sale su verso l’indefinito, verso l’ignoto, verso quello che per tutti noi terragni salentini appare essere l’oscurità del nord. I nord del mondo, anch’essi belli e affascinanti, a noi del sud appaiono sempre indecifrabili, spesso misteriosi. Anche per questo gli amiamo. E il Verri era grande amatore di certi nord che amorevolmente lo accoglievano. Penso a Yverdon, sulle Alpi svizzere.
Non posso scrivere che quel giorno che andammo da Giancane non fosse radioso. Perché lo era. Qualcuno ricorda che forse era primavera, il tempo che dischiude gli amori: quelli delle piante, quelli degli uomini e delle donne. Partimmo da Caprarica di Lecce che era ancora mattino: né troppo presto né troppo tardi; giusto quel tempo in cui, al Verri, appena dopo aver bevuto il suo secondo caffè della giornata, quello di mamma Filumena, e dopo essersi seduto al posto di comando nella un po’ tanto sgangherata FiatUno, alla cui guida c’era chi qui scrive, cominciasse a fumare una delle sue solite “Ms blu”. Fumava e faceva progetti. Era il tempo in cui andava pensando alla sua leggendaria città di Guisnes. Un giorno se l’immaginava lagunare, un altro collinare, un altro ancora sprofondata in una foresta. Alla fine però il suo modello preferito ritornava a essere Gardigliano di Sopra, il villaggio agricolo al centro del Basso Salento, a quel tempo abbandonato ai latrati dei cani e agli amplessi nascosti di soldati in libera uscita con fidanzatine speranzose di ammogliarsi oppure con languide mogli pur sempre insoddisfatte dei magli rattrappiti di mariti frustrati dagli anni.
A Cavallino, al centro dell’antica Sybar messapica, ci fermavamo presso il busto bronzeo del duchino Sigismondo Castromediano. A lui, Antonio L. Verri faceva una particolarissima raccomandazione: cercare di stare un po’ più con gli occhi aperti – ciò non doveva proprio costargli troppo, in quanto erano di bronzo – e quindi tutelare sulla nostra povera storia di messapi senza avvenire.
A Lecce, invece, ci fermavamo appena qualche minuto, alla Biblioteca provinciale “Nicola Bernardini”, giusto quel tanto per consegnare al buon “vecchio” bibliotecario, Enzo Panareo, le prime bozze del suo libro che, successivamente, avrebbe visto la luce col titolo Anni estivi, edito dal Centro culturale “Pensionante de’ Saraceni”.
Partendo da Lecce, per raggiungere Monteroni attraversavamo l’area archeologica dell’antica Rudiae, altra roccaforte messapica, che aveva visto dare i natali a Quinto Ennio, il primo dei nostri grandi poeti latini.
Dalla provinciale che da Lecce porta ad Arnesano sono molte le viuzze rudiane che s’immergono dirigendosi nell’ubertosa Valle della Cupa, una valle questa più ideale che reale, perché il Salento non ha montagne. Tutto al più ha dei rilievi alti appena una decina di metri sul livello del mare. Però la terra di questa Valle è molto buona, profonda, altamente coltivabile, quasi sempre umida, che dà molti frutti e molti altri prodotti agricoli durante il corso dell’intero anno. Comunque, com’è come non è, per raggiungere la nostra meta, sterzavamo in una di queste stradine, ancora oggi caratterizzate dalla tortuosità dei calpestii messapi.
E qui lo scenario era sempre più meraviglioso per Verri: amava i muretti a secco, in questi luoghi mai troppo alti; e le grandi masserie abbandonate ma ancora avvolte dal fascino di streghe baciate dalla luna piena; e le barocche ville signorili, un tempo abitate, qualcuna ancora oggi per la verità, dai potenti della Lecce aristocratica; e le pajare a cono tronco, pulite ed erette al centro di campi coltivati a vigneto con spalliera; e le rare specchie basse, anch’esse pulitissime, opera di laboriosi contadini, spesso anziani; infine, i cumuli ricoperti di innocenti erbe selvatiche ma che nascondevano i tesori omerici di questi luoghi, le rovine della città fondata dagli elleni di Rodi. Guardandoli, Antonio esclamava, più rivolto a se stesso che al solito chauffeur: «Ma che Cristo fanno i nostri professori archeologi dell’università del Salento? Se ne vanno a scavare rovine in Estremo Oriente lasciando qui tutto ancora sepolto. Ma questa non sarebbe forse un’altra delle occasioni di sviluppo per la nostra terra?».
Non c’erano risposte a queste affermazioni, anche perché chi ascoltava non ne sapeva dare.

Raggiungevamo Monteroni (che forse sta per Monte di Rodiae con una d trasformatasi col tempo in n, e che monte proprio non è, appena 35 metri sul livello del mare) che il sole era già alto nel cielo. Da uno slargo, subito dopo l’incrocio per San Pietro in Lama, ci immettevamo in via sant’Oronzo, e di qui era facile raggiungere la casa-giardino di Giovanni Giancane. Il cancello in ferro battuto del signore dominatore delle fiamme perenni, cioè l’artista del raku, è sempre aperto per chiunque voglia andare a trovarlo, e spesso in ogni ora della giornata, a volte anche di notte. La sgangherata FiatUno dello chauffeur di turno, quella volta lì, superò agilmente l’ostacolo del cancello parcheggiandosi in uno degli ampi slarghi costruiti da Giovanni per queste tipo di necessità.
Gli spiazzi in terra battuta sono differenti per via del fatto che Giovanni li ha costruito con le sue mani, o quantomeno ha riadattato le due case lì edificate. Forse egli sarà partito da alcune fondamenta appena tracciate. Comunque sono due edifici disposti a L nell’ampio giardino, una perpendicolare all’altra. Il primo edificio, composto di diverse stanze, serve all’artista e alla madre – Ada la saggia, come veniva chiamata da chi la frequentava, scomparsa anche lei appena un anno fa – per dormire. L’altro edificio, invece, che Giovanni ha costruito ex novo, gli è utile per lavorare, mangiare, sonnecchiare, pensare, perdersi in qualche brutto pensiero, disperarsi, ritrovare la felicità perduta, amare e farsi amare da chi gli viene voglia di passare per questi luoghi e per le tante storie di elfi e di folletti colà presenti.
«Ciao, sono Antonio Verri!», disse, presentandosi, l’uomo dalle mani d’oro.
«Ciao, ed io sono Giovanni. Vi aspettavo!», fu la risposta dell’artista.

Verri era solito presentarsi, “squadrando” chi gli stava davanti con l’unico occhio da cui vedeva meglio. S’accorse così che stranamente Giovanni aveva una carnagione bianca ma straordinariamente villosa, una sorta di coperta di folta peluria nerissima. I capelli poi erano più neri di ogni altra cosa, una sorta di nero profondo notturno, lisci e cadenti a caschetto sulle spalle rotonde di un contadino dalla forza gigantesca.
«Allora adesso vi mostro il giardino. Poi parleremo di quello per cui siete venuti qui», disse sorridendo e facendoci strada verso il grande viale segnato ancora dagli spogli tronchetti di pergola e gelsomini.
Ci mostrò l’agrumeto con aranci, mandarini, limoni e una specie rarissima di cedri biblici; quindi i due giganteschi gelsi, distanti l’un dall’altro un centinaio di metri; le fejoje con i loro frutti appesi come campanelle; e poi i ciliegi, i percochi, i peri, i cachi, i mandorli, i fichi, i nespoli, uno stranissimo tamericio, grande e grosso come mai visto prima con pochissimi rami e pochissime foglie; e poi il canneto pregiato, le magnolie, il vigneto, il fragoleto, le piante basse degli agli, delle cipolle, dei pomodori appena piantati, la lattuga, altro ancora.
Ad ogni pianta, oppure vicino ad ogni albero, Giovanni si fermava, spiegava, raccontava la storia di come e di quando era stata piantata, come talvolta l’aveva dovuta salvare da morte per siccità, oppure perché colpita dalla tempesta di grandine di un temporale estivo, oppure salvata da una delle tante malattie che colpiscono le piante. A sentirlo parlare sembrava che egli avesse un rapporto del tutto particolare con le piante, una sorta di rapporto familiare, di intimità segreta che a noi sfuggiva, che non potevamo cogliere, data la nostra lontananza.
Così come aveva fatto con le piante, Giovanni fece anche con le pietre. Nel suo giardino ce n’erano disseminate veramente tante. A guardarle tutte sembrava che egli non avesse fatto altro che andare in giro per il Salento e raccogliere pietre, di ogni dimensione, di ogni forma. Quello che a lui interessava soprattutto erano le pietre su cui si era fermata, per un motivo o per un altro, la mano umana; pietre su cui qualcuno c’avesse lavorato insomma. Ricordo che il Verri ebbe un interesse particolarissimo per queste pietre e, di alcune di esse, volle conoscere la provenienza, la tipologia, l’uso, e come l’avrebbe usate Giovanni. Per ognuna delle pietre ci fu la risposta: alcune erano di carparo duro delle cave di Gallipoli, e per lo più il proprietario le aveva raccolte per la loro bellezza materiale: andavano da un giallino rosa pallido a un rosa rodiano; altre erano di tufo delle cave di Arnesano: erano state raccolte per la loro leggerezza e adattabilità per ogni genere di lavoro; altre ancora erano di pietra viva di Surbo: buone soprattutto per la loro resistenza a qualsiasi genere di intemperie ma anche a qualsiasi genere di attacco umano; altre infine erano di pietra leccese, quella dolcissima pietra con la quale erano stati intagliati tanti capolavori della Lecce barocca. Giovanni spiegò poi le varie forme delle sue pietre: ce n’erano a forma di menhir, ed erano lunghe e sottili; a forma di dolmen, larghe e poco spesse; a forma di palla da catapulta da nave, e il narratore ci raccontò che forse erano state usate dai turchi per bombardare e prendere Otranto nel 1480; altre avevano la forma delle stele daune; altre ancora erano delle pile per il travasamento delle acque che anticamente venivano tirate su dai pozzi; infine altre erano semplicemente delle colonne oppure cariatidi di balconi barocchi.
In un grande spiazzo del giardino Giovanni mostrò poi l’enorme collezione delle sue capase, o giare ottocentesche. Antonio Verri non aveva mai visto in vita sua tante anfore, e di così grandi dimensioni. Anche in questo caso si fece spiegare la provenienza e soprattutto l’uso che ne faceva l’attuale proprietario.
«Servono per contenere il vino d’inverno!», fu la risposta di Giovanni.
Verri stava osservando attentamente uno di questi grossi otri di terracotta, quando il suo occhio sbilenco andò a posarsi su un ramo basso di un albero di mimosa. Tra le sottili foglie, quasi ad aghi, vide un nido di faniella. Si avvicinò e guardò dentro e la sua meraviglia fu di vedere cinguettare due implumi. Repentino come una faina, Giancane si frappose fra sé e l’uomo dalle mani d’oro e, preoccupato ma a viva voce, gli chiese di allontanarsi per evitare che la mamma degli uccellini s’ingelosisse e li abbandonasse ad un loro triste destino. Antonio Verri comprese quell’ansia e subito cambiò direzione a quei suoi piedi malamente coreutici.
Giovanni allora ci portò all’interno della casa-laboratorio, che da sempre era il suo buon rifugio. Il primo grande stanzone, una sorta di “rimessa” lunga e larga, conteneva ogni sorta di oggetti, una specie di bazaar arabo-salentino. Cosa non videro gli occhi sbilenchi di Antonio Leonardo Verri? Per prima cosa il tornio col quale Giovanni dava forma alle sue ceramiche; poi vide altre giare colme di vino; e gli ammezzati con un’infinità di scatoloni ricolmi di oggetti in terracotta; e ancora altre anticaglie; e gli antichi finimenti di cavallo; ed una bilancia a sbarra pendula; e il forno per la cottura delle ceramiche; e le corde degli agli appesi; e le pendule di pomodori invernali del tipo giallo di Spagna; ed un bicchiere vescovile con una rosa appassita nel bel mezzo.
Per ognuno degli oggetti oppure per quelle cose che potevano sembrare incomprensibili all’intelligenza dell’uomo dei curli, Giancane dava spiegazioni, commentava, dimostrava aprendo la “cosa”, sfoderandola, scoperchiandola. Come fece con delle stupende civette prodotte col metodo “raku”, che l’artista aveva preso da alcuni scatoloni. Per diverso tempo rimanemmo incantati davanti a quelle meraviglie, che non sapevamo giudicare se erano il frutto del lavoro di un bravo artigiano oppure le opere di un geniale artista. Alcune di queste civette “cantavano” pure, proprio come naturalmente fanno quegli uccelli, grazie alla combinazione di alcuni forellini inseriti nel “corpo” della terracotta. Da tempo tenevamo in mano alcune di queste civettine, tanto che alla fine, sorprendentemente Giovanni disse:
«Vi piacciono? Sono vostre!».
«Ma noi non vorremmo approfittare», rispose con voce melliflua l’uomo dei curli e pur sempre dalle mani d’oro. Non aveva neanche finito di dirlo, che ci vedemmo mettere tra le mani ben cinque bellissime palle bianche di porcellana, che erano state parte di un ingranaggio di un molino che macinava la sabbia per le vetrine della ceramica.
«Ed anche queste sono vostre!», disse ancora Giovanni.
Rimanemmo sorpresi. Non sapevamo proprio come comportarci. Verri tentò di apostrofare qualche verso – egli sicuramente di versi se ne intendeva –, ma non ci fu genere di verso che potesse far recedere Giovanni dalla decisione presa. Per cui quelle due civette e quelle cinque palle divennero definitivamente nostre.
Antonio annuì con la testa, sussurrando qualche frase di compiacimento, poi distolse gli occhi da questi oggetti preziosi, perché non volle mettere ulteriormente in imbarazzo il padrone di casa. Intanto andava annotando tutto su un quadernetto di scuola elementare, di quelli con la copertina nera.
Alla fine del giro perlustrativo nella grande stanza-laboratorio, Giovanni ci fece transitare nelle altre stanze. La prima nella quale accedemmo era una sorta di tinello, con un grande tavolo fratino al centro, di fronte ad un’immensa bocca di un forno per la cottura del pane. Tutto il Salento sa che Giovanni è un bravo costruttore di forni, camini, fornaci, e qualsiasi altra struttura che avesse a che fare col fuoco. Questo forno che egli si era costruito in questa specie di tinello era uno dei più belli. Aveva usato tutte le più belle pietre del Salento a sua disposizione e le forme che aveva dato ad esse erano veramente stupende: “petti di colombo”, curvature a cerchio, squadrature perpendicolari, ecc.
Ormai si era fatto molto tardi. Mezzogiorno era passato da un bel po’ quando, anche questa volta in modo sorprendente, il padrone di casa ci invitò a pranzo.
«Adesso si è fatta ormai l’una, per cui non vi conviene mettervi in macchina e ritornare da dove siete venuti. Fermatevi a mangiare un boccone qui da me. Sicuramente mia madre avrà preparato anche per le vostre bocche! E poi ho intenzione questo primo pomeriggio di farvi vedere come si fa a cuocere la terracotta col metodo “raku”».
Effettivamente, al di là della stanza-tinello dove noi ci trovavamo, c’era la signora Ada – la saggia per tutti ed ora anche per noi – in una stanza che funzionava da cucina. Verri ci mise l’occhio anche lì. E anche questa volta, cosa non vide?
Vi erano due grandi armadi a vetri con all’interno un’infinità impressionante di bicchieri, piatti, scodelle, pignate, coppe, sottopiatti, portauova, tazze di ogni dimensione, altro ancora. Tutto indubbiamente in terracotta, e tutto prodotto da Giovanni. Vi era poi un ammezzato, su cui non era possibile contare il ben di Dio che su di esso stava sistemato: bottiglie di conserva di pomodori; vasi di capperi in salamoia; vasetti di sarde salate; vasetti di lampagioni all’olio, in salamoia, al vapore; capaseddhe (anforette) di fichi secchi infornati; vasetti di ogni tipo di peperoni, melanzane, carciofi, olive, altri prodotti sott’olio.
Ci sedemmo finalmente per mangiare. E qui altra sorpresa di questa giornata che Verri se la sarebbe portata dietro come ricordo indelebile. Ci servirono pittule alla borragine, frittata di ortiche, finocchietto tuttoparu, lampagioni arrostiti, e un supratavola abbondantissimo di sedani, finocchi, cicorie, salate, romanelle, ecc. Il tutto innaffiato con vino della casa, che il Verri reputò essere un buon vino.
«Giovanni – disse – vorrei ricordarti che sono venuto fin qui per dirti che ho bisogno della tua carta fatta di stracci. Finora non ho visto carta più bella di quella prodotta da te. Vorrei che tu ne producessi alcuni fogli, magari con su un tuo disegno o una tua incisione da inserire all’interno di un grosso libro che ho in mente di pubblicare e che vuole essere il mio Declaro, cioè una specie di libro dei libri, contenente tante cose, tanti scritti, ma anche tantissime trovate. Una di queste sorprese potrebbero essere i tuoi fogli di carta prodotta all’antica maniera, cioè con gli stracci».
«Ti prometto che li farò! Dammi un po’ di tempo», fu la risposta di Giovanni.
Non aveva finito neanche di parlare che, per dimostrarci come avrebbe prodotto questa carta, prese un pezzo di stoffa di cotone e lo immerse nell’acqua di un mortaio dentro al quale cominciò a stompare.
Ancora per un poco altro tempo, continuammo a parlare del più e del meno delle cose del Salento. Poi Verri si appisolò su una poltrona, mentre Giovanni andò a preparare la struttura per il “raku”.
«Corri Verri! Corri! Vieni a vedere come si fa un’infornata di “raku”!», si sentì la voce di Giovanni provenire dalla stanza-laboratorio.
Antonio Leonardo Verri si affacciò sull’uscio del laboratorio e cosa non vide nuovamente il suo occhio?
L’agricoltore artista aveva davanti una decina di civette appena sfornate da una prima cottura e che ora, dopo essere state imbevute di una sorta di vernice biancastra, venivano cosparse di un’infinità di ossidi, lapislazzuli, oro, argento, alluminio, rame, altri minerali. Gli occhi di Verri, anzi l’occhio di Verri, perché, come già sappiamo egli vedeva solo da un occhio, quello sbilenco, si fece più attento che mai. Vide Giovanni Giancane combinare alchemicamente un’infinità di elementi in un impasto fatto di derivati della silice, dell’alluminio, di essenziali minerali ferrosi, come il manganese, più altre incredibili impurità metalliche, il tutto macinato e mischiato a terre impregnate di liquidi ossidanti. Quindi l’artista passò a foggiare al tornio, a mano, con le lastre a colombino, ed anche a calaggio. Forme e volumi che, opportunamente essiccati fino al livello della “durezza cuoio”, affidò alla fornace portata ad una temperatura iniziale di 850°-900° C, questo per ottenere il primo biscotto. Successivamente cosparse la terracotta di cloruri, carbonati e ossidi, ricuocendo il manufatto alla temperatura di 1100° C. Al momento della fusione della vetrina, Giovanni estrasse gli oggetti dal fuoco ancora incandescenti, lasciandoli raffreddare all’aria in numerosissime nuvole di fumo.
Verri non aveva visto mai nulla di ciò che l’artista stava facendo con quella fornace in quel momento. Giovanni stava ora ingioiellando delle terrecotte, infilandole una a una in una sorta di fornace consistente in un basso bidone di petrolio ricoperto di materiale refrattario. Ci disse che la fornace era ormai pronta. Venne portata alla temperatura giusta e, dopo un’altr’ora di cottura, Giovanni tirò fuori le civette, sistemandole in un nuovo recipiente colmo di paglia e di altro materiale fortemente infiammabile. Quindi chiuse alla meglio questo nuovo mezzo bidone, che cominciò a cacciare fumo da qualsiasi sua fessura. Il tempo di affumicare buona parte del giardino, venne infine il “ripescaggio” delle terrecotte e la loro pulitura in acqua fredda.
Su quello stesso tavolo, che poco prima era servito per mangiare, furono messe, una accanto all’altra, le dieci civette prodotte col metodo “raku”.
Lo splendore fu immenso. La gioia infinita. Tant’è che vedo ancora oggi il Verri incantato davanti e Giancane, stanco e sudato, che se la ride stravaccato sul una poltrona di vimini. 

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