giovedì 20 giugno 2013

L'Antonio L. Verri di Ennio Bonea

Antonio Verri fotografato da Fernando Bevilacqua viraggio in verde-giallo


Antonio e il Professore
a cura di Maurizio Nocera

Il 14 aprile 1994, Ennio Bonea (Taranto, 6 ottobre 1924 – Lecce, 12 dicembre 2006), fondatore della «Tribuna del Salento» e del «Quotidiano di Lecce», che noi abbiamo chiamato sempre il professore (per decenni insegnò Letteratura italiana moderna e contemporanea all'Università di Lecce), mi scrive la lettera seguente: «Caro Maurizio,/ ho avuto la plaquette, finalmente. A parte i refusi, ho letto d'un fiato, senza darmi una sosta di riflessione, questa incalzante e divorante, piccola-grande tragedia, ritrovandomi alla fine con un groppo alla gola e dinanzi agli occhi la figura di Antonio, qui, nel mio studio di fronte a me, così diverso da quello istintivo e spontaneo delle tue pagine. Ho ricavato le ultime giornate di un Antonio solo in parte da me conosciuto, ho appreso il suo presentimento di morte, la sua ansia di vita, il suo creativo disordine, i suoi affetti. Ho visto la sua tragica, vera, perché vista da lontano, straziante fine./ È uno splendido documento da trasmettere ai salentini e agli amici di Antonio sparsi nel mondo. È possibile farlo per il 9 maggio, nella scadenza annuale della sua scomparsa?/ Grazie, caro Maurizio, per avere saputo tracciare la più toccante immagine umana di un amico amato da chi lo frequentava e di un poeta sconcertante ma seducente per chi lo leggeva. Affettuosamente,/ Ennio Bonea».
La lettera di Bonea si riferisce al mio poemetto Antonio Antonio! (o dell’Amicizia), che in quell’occasione egli lesse in una plaquette manoscritta e che successivamente vide la luce una prima volta nel 1998 in un grosso volume – Antonio Verri Fabbricante d’Armonia – curato da chi qui scrive più Luigi Chiriatti e Fernando Bevilacqua per conto dell’Istituto Diego Carpitella di Melpignano; e una seconda volta pubblicato ancora nel 2003, sempre con lo stesso titolo, dall’Edizioni “Il Laboratorio” di Parabita di Aldo D’Antico e Franca Capoti.
Le parole di Bonea scritte nella lettera sono profondamente sincere, perché sincero era egli divenuto dopo quanto era successo a metà anni ’70, quando Antonio si era iscritto all’Università di Lecce e, come primo esame, aveva tentato di sostenere proprio con Bonea Storia della letteratura italiana. Quella volta Verri aveva preparato tutto quanto c’era da studiare per sostenere l’esame (il suo studio su tutti gli autori contemporanei, in primis Cesare Pavese, era completissimo) e lo sostenne, passando prima da Armida Marasco e poi dallo stesso professore. Solo che, una volta finito l’esame, Bonea gli chiese se aveva letto una dispensina distribuita da lui stesso durante una sua lezione. Verri non sapeva neanche dell’esistenza di quella dispensa, per cui il professore, candidamente, gli disse che sì era stata bravo nell’esame in generale, ma che non poteva dargli un voto pieno per via di quella dispensa. Verri non disse una parola, si prese il libretto universitario e uscì dall’Ateneo. Solo che una volta fuori, fece in cento pezzi il libretto promettendosi che non avrebbe più messo piede in quell’edificio.
Fu anche questa la molla che lo spinse a pubblicare il suo primo giornale - «Caffè Greco» (1977-1981), fatto con rabbia e con la volontà di pubblicare gli scritti di tutti coloro che erano stati esclusi (bocciati) dall’università o comunque emarginati da certa intellighenzia salentina. Per farlo ci incontravano in una strada di Calimera, raramente a casa di Antonio a Caprarica di Lecce. A stamparci i primi numeri, in formato tabloit, fu la tipografia di Franceschino Scorrano a Lecce. L’avventura del primo giornale di Verri continuerà in altri luoghi e con altre tipografie, ma sempre con l’entusiasmo del suo ideatore. Una volta stampato il giornale, suo grande interesse era di andare a venderlo (?), in realtà si trattava di donarlo agli amici, nei pressi dell’università e, in modo quasi sempre provocatorio, donarne una copia proprio a Bonea. Questo modo di fare durò fino a quando, in una delle ultime distribuzioni del giornale, il professore, che intanto sembrava essersi dimenticato di quello strano tipo grande e grosso con la barba nera e foltissima, gli disse che voleva parlargli e che sarebbe stato felice di farlo nel suo studiolo, ubicato allora nel corridoio sulla sinistra appena varcata la porta dell’Ateneo di Porta Napoli.
Verri aveva capito che il professore Ennio Bonea aveva forse dimenticato l’accaduto che gli aveva procurato la decisione di chiudere definitivamente con gli studi universitari, così accettò di incontrarlo. Nello suo studio all’università, nessuno fece cenno a quell’accidenti di esame di Storia della letteratura, così il professore si congratulò col direttore di «Caffè Greco» invitandolo a continuare le pubblicazioni. Invito accompagnato con una moneta di diecimila lire, che per Verri significò l’incanto dello scioglimento di ogni nodo alla gola. Da quel momento in poi Antonio L. Verri non fece più alcuna iniziativa letteraria senza prima averla concertata o comunicata a Bonea, il quale cominciò a sostenerlo anche economicamente. Io sono testimone di quanti contributi Ennio Bonea ha dato ad Antonio e non potrò mai dimenticare quella volta della mostra “Scrap”, per la quale il professore sborsò un milione di lire tondo tondo, giusto il costo delle cento cornici dei quadri.
La storia di quell’accidenti di esame andato male, gliel’ho poi ricordata io a Bonea, quando Verri ormai non c’era più a questo mondo, e, con mia grande sorpresa, il professore mi rispose “So!”.


Che cosa non ha fatto Ennio Bonea per Verri? Tanto. Ricordo quando, assieme all’allora sindaco di Caprarica di Lecce, geometra Massimo Greco, organizzammo la commemorazione di Verri in occasione del 10° anniversario della morte. La sessione straordinaria e in seduta pubblica di prima convocazione. si tenne nell’Aula consiliare del Comune di Caprarica di Lecce il 9 giugno 1993 a partire dalle ore 20,30. I consiglieri comunali presenti furono: GRECO Massimo Antonio, LEZZI Oronzo, MAYO Maria Giovanna, PALUMBO Giovanni, CONTE Antonio, ROLLO Medoro, APRILE Antonio, MURCIANO Mario, GATTO Nicola, FRANCO Marcello, PENZA Vincenzo Pietro, LEO  Francesco, LEO  Vincenzo. Assente: VERRI Fulvio.
Alla fine della sessione fu approvata la deliberazione n. 40, avente per oggetto: Commemorazione dello scrittore e poeta Antonio L. Verri, con i seguenti inteventi:
MASSIMO GRECO:
«Nel dichiarare aperto il Consiglio Comunale, convocato in seduta straordinaria nel trigesimo della scomparsa di Antonio Verri, poeta e scrittore di questo comune, saluto e ringrazio vivamente tutti per essere intervenuti qui ad esprimere con la vostra presenza l'affetto e l'apprezzamento per Antonio e per il suo silenzioso, ma profondo e significativo impegno poetico e sociale che onora il nostro Paese. Ringrazio anche il Parroco per la sua presenza e il Ten. Col. Luigi Romano./ Un saluto particolare e un grazie sentito, permettetemi di esprimerlo agli ospiti, amici e collaboratori di Antonio qui convenuti i quali, onorandoci con la loro presenza, sottolineano e testimoniano la grandezza ed il valore della sua vita e della sua opera. Sono tra noi il Prof. Ennio Bonea, il Prof. Maurizio Nocera, il Prof. Fabio Tolledi, Fernando Bevilacqua e altri il cui nome noi non conosciamo. A voi tutti grazie e benvenuti. Alla signora Licia, alla mamma, al papà, al fratello e a tutti i parenti di Antonio che, facendo violenza al loro dolore, sono qui con noi, vogliamo esprimere ancora una volta la solidarietà dell'Amministrazione Comunale e dell'intera cittadinanza, e vogliamo dire loro che se Antonio non è fisicamente tra noi egli è però con noi più vivo che mai e vivrà sempre nella memoria del popolo di Caprarica attraverso la sua opera di letterato e di poeta, resa più grande dalla sua esemplare umiltà e dalla libertà da qualsiasi tipo di potere./ Il grande poeta Orazio, consegnando alla storia il suo Carme secolare, scriveva: “Non morirò del tutto. Gran parte di me sopravviverà. Ho costruito un monumento più duraturo del bronzo”. È proprio così. La memoria ed il ricordo delle persone arroganti, di chi consuma la vita per conquistare beni materiali e potere (che sembrano le cose che per noi veramente contano) muoiono con la loro scomparsa, e “di lor più non si ragiona”, direbbe Manzoni. E i discorsi commemorativi che qualche volta si fanno sembrano l'indice di un libro mai scritto.
Al contrario, il ricordo e la memoria degli uomini che spendono la propria vita al servizio dei grandi valori: dell'arte, del sapere disinteressato e del dialogo e perseguono questi valori con libertà di spirito, dicevo, il ricordo e la memoria di queste persone s'impongono con la loro scomparsa, quasi che il corpo ne impedisca la totale e piena manifestazione e ne offuschi il valore./ Allora senza retorica possiamo ancora ripetere che Antonio non è morto del tutto, gran parte di lui è rimasta tra noi e questa Amministrazione Comunale, consapevole del valore di questa sua vita che continua, col desiderio che il suo personale patrimonio spirituale diventi patrimonio della nostra collettività e dell'umanità, invita tutti coloro che hanno nel cuore lo stesso desiderio ad offrire il proprio contributo di idee e di proposte, perché nulla dell'opera e della vita del nostro amico Antonio, vada perduto».

Prende la parola il prof. ENNIO BONEA:
«Consiglieri, Assessori, permettetemi di dirvi sinceramente che se Antonio fosse qui presente, e lo è, ma non in senso fisico, certamente scuoterebbe la testa e sorridendo con quel suo sorriso buono, direbbe: “Non è cosa per me!”. Perché Antonio ha lavorato, ha scritto, ha composto, ha dipinto, ha sollecitato gli altri, ha combattuto per affermare alcuni ideali, non per avere questa rimembranza, o questa commemorazione. Lo ha fatto perché era nel suo spirito, spirito che lo spingeva ad agire come ha agito, ad essere come è stato./ Certo, visto dall'esterno io non posso non compiacermi che il Consiglio Comunale di Caprarica, espressione della comunità di Caprarica, volendo onorare un suo illustre cittadino, abbia convocato un Consiglio Comunale aperto per dare un giusto riconoscimento a chi non è più. Ha compiuto un'opera meritoria e mi compiaccio vivamente con il Sindaco e con gli Assessori per questa decisione. Sono estremamente commosso nel vedere tanti cittadini di Caprarica qui convenuti a sentir parlare di un loro concittadino, di un giovane, che diciamo la verità, lo dicevo proprio prima di entrare alla madre di Antonio, chiedendole scusa di fare questa considerazione, non è giusto, dicevo, che un uomo per essere riconosciuto di ciò che vale, debba morire. Perché è onesto dire in questo momento, che quando Antonio ha vissuto come ha vissuto, liberamente, come un uomo libero riesce a vivere senza curarsi dei giudizi altrui, senza stare a vedere l'entrata e l'uscita di quelle iniziative che la sua attività di editore lo portava a soffrire. Certamente Antonio non trovò apertamente il consenso e l'apprezzamento della comunità in cui viveva. Era un poeta, un poeta così come lo intendiamo noi comunemente. Il poeta è colui che non sa costruire, è colui che sembra non produrre, è colui che pensa all'immaginazione e alla fantasia e non alla costruzione di cose concrete, reali, come se cose concrete e reali non erano le produzioni dell'intelligenza, dello spirito, che rimangono secoli e millenni, mentre sappiamo tutti che le cose costruite materialmente se non oggi domani dovranno soccombere per l'incuria degli uomini o per l'aggressione del tempo. Ed ecco che se la Torre di Pavia all'improvviso crolla, come crollò due anni fa, è da dire, e lo sanno tutti, anche coloro che a scuola non vanno, che non è crollato l'edificio che ha costruito Omero, grande poeta cieco, che ha scritto, se sia stato solo o insieme ad altri non importa, due poemi come l'Iliade e l'Odissea. Sono passati millenni, ma la sua opera e la sua memoria sono ancora considerate e studiate ed apprezzate dagli uomini veri./ Ebbene, Antonio è vissuto creando apparentemente nulla, ma Antonio è vissuto creando non soltanto il monumento per se stesso come diceva Orazio, citato dal Sindaco, ma costruendo un monumento di cultura e onestà mentale, di credito, che serve al paese in cui egli è vissuto; al paese dove egli ha operato e ha operato per sé e per i suoi simili, se è vero come è vero che non soltanto da Lecce si muovono persone e amici che vengono qui per rammentarlo, per ricordarlo, per testimoniare ancora il loro affetto, la loro stima./ Ad Antonio sono arrivate lettere, arrivano ancora lettere, mi diceva Giuseppe Conte, dalla Romania, dove un poeta e professore universitario chiedeva se le opere di Antonio potessero essere pubblicate insieme a quelle di uomini più noti di Antonio, certamente, come Parini, Prezzolini, Ungaretti, Saba. Ebbene, se dalla Romania vengono questi riconoscimenti, se dall'Argentina e dalla Francia, dalla Svizzera e dall'Albania, perfino, arrivano lettere di cordoglio per la perdita di un uomo di questa levatura, significa che Antonio qualche cosa di concreto lo ha costruito. E se è vero che la morte è giusta di gloria dispensiera, è vero anche che la memoria di Antonio consente a lui, assente, di essere presente. Chi vi parla è un modesto storico della letteratura e io vi garantisco di avere già in un certo senso registrato l'opera e l'attività di Antonio Verri, che rimarrà nelle generazioni che seguiranno noi, e quindi sarà Antonio che porterà ancora avanti negli anni in cui noi non ci saremo più il nome di Caprarica, il paese dove egli operò, o meglio il paese dove egli è nato, dove sono nati i suoi genitori, il paese nel quale egli ha voluto continuare a vivere non soltanto fisicamente, ma mentalmente, culturalmente; per cui Caprarica è il luogo vicino Lecce dove egli ha voluto distruggere la periferia culturale del mondo; dove egli ha voluto costruire un universo-mondo unitario in cui la cultura non avesse gerarchie geografiche. Antonio ha fatto questa grande opera, ha unificato culturalmente la provincia con la metropoli; in questo piccolo spazio che è il Salento la provincia è diventata in un certo senso metropoli. Non Caprarica di Lecce ma Caprarica e Lecce, questo è un concetto che difficilmente si può comprendere se non si sa che il provincialismo è l'atteggiamento di colui che guarda a dei modelli che non costituiscono un insegnamento ma un comportamento./ Antonio non ha mai voluto comportarsi nel modo in cui gli altri si comportano. Antonio è stato sotto questo profilo un anarchico, che non accettava un comando superiore alla propria coscienza, un anarchico libertario, come diceva Kant: “la legge morale dentro di me, il cielo stellato sopra di me”. Antonio ha vissuto liberamente in modo rivoluzionario, nel senso di voler modificare il modo di pensare, il rapporto fra se stesso e il potere. Io non ho mai sentito parlare Antonio, nei lunghi colloqui con lui, di politica; nelle ore più strane e nei luoghi più impensati, parlando di tanti problemi, non ho mai sentito parlare Antonio di due cose: di politica e di morte. La politica è il modo in cui l'uomo regola i propri atti nei confronti degli altri, e in questo senso Antonio “era” un uomo politico perché confrontava il proprio modo di pensare e i propri comportamenti, non modificandoli provincialisticamente su quelli degli altri, ma esprimendo liberamente ciò che sentiva, senza prevaricare. In questo egli mi è stato maestro di liberalismo - io che mi professo liberale da quando sono nato - Antonio, pur non essendo un liberale in senso ideologico, ha praticato il liberalismo conformando il suo agire a quello che era il suo pensiero. E il suo pensiero è stato quello di un uomo profondamente onesto, che non ha mai celato un secondo fine per il quale egli instaurava un rapporto con i propri simili o con il potere. Se è andato dal Presidente della Provincia, dal Sindaco, se è andato dal Presidente di un determinato Ente per un contributo, non lo ha mai chiesto per sé. Mai! Lo ha chiesto sempre per altri, e questo è il senso del suo essere uomo, del suo essere poeta. Perché, se è vero che i suoi concittadini lo hanno considerato uno che viveva nel mondo dell'immaginazione, della fantasia, è vero peraltro che egli ha accoppiato il suo essere poeta col suo essere un costruttore di operazioni di cultura./ Egli è stato non soltanto un creativo per scrivere romanzi, commedie, poesie, drammi, racconti, per fare quadri (anche questo era Antonio Verri, un pittore), ma ha anche agito per costruire operazioni culturali sino a realizzare una fondazione che purtroppo, ahimè, temo non possa essere più continuata se non chiamando all'appello i suoi fedelissimi amici; gli amici di bottega, di mangiate all'osteria, amici di bevuta, per fare in modo che la sua fondazione "Pensionante de' Saraceni" continui ad esistere./ Questa la grande operazione culturale che Verri ha fatto. Lo ha fatto a Cursi,  piccolo luogo della Provincia così come a Caprarica, ha voluto creare un altare culturale del Salento, non perché diventasse l'ombelico del mondo, ma perché Caprarica fosse simile a Salonicco, città della Grecia, dove erano i poeti amici di Antonio; perché Caprarica fosse simile a Yverdon, città della Svizzera dove Antonio andava per fare convegni di poesia e dove i poeti della provincia di Lecce erano uguali ai poeti francesi, inglesi, svizzeri, tedeschi, rumeni, americani./ Ecco qual è la grande contraddizione della vita di Antonio, quella di essere un poeta, un pensatore che creava per sé, ma anche un operatore culturale che poi è riuscito a fondere due mondi completamente separati; se non contrastanti certamente indifferenti uno all'altro: il mondo del pensare e il mondo del fare. Sta lì la sua fondazione, sta lì la sua biblioteca che dobbiamo ingrandire. Mi riferisco a Maurizio Nocera, a Fernando Bevilacqua, ad Antonio Errico, i suoi amici quotidiani: fate in modo, voi, di prendere questo testimone che Antonio vi ha lasciato./ Ecco, io spero che voi portiate avanti a compimento quest'opera concreta che Antonio, uomo del pensare, ha saputo realizzare come fosse l'uomo del fare. E questo è il senso della vita che Antonio aveva. Vivere liberamente, ma non soltanto per sé, vivere per la collettività.

Antonio voleva abbattere, con la differenziazione culturale, anche la differenziazione economica. È questo il concetto del potere che aveva Antonio. Egli voleva un potere che fosse aperto a chi potere non ha, ed egli, che non aveva e non voleva il potere, ha avvicinato gli uomini di potere, da pari a pari./ Voleva portare il rapporto fra simili, nella diversità delle funzioni. Egli non ha mai ambito a voler essere rappresentante del Comune, della Regione o della Provincia; non ha mai ambito a cariche politiche, ma sì a cariche sindacali; in un sindacato che non dovrebbe esistere, il Sindacato scrittori. Mi sapete dire a che cosa serve un Sindacato scrittori? Gli scrittori, che sono uomini liberi naturalmente, istintivamente, istituzionalmente, che possono non avere padroni dai quali percepire una paga e prendere quattro paghe per il lesso come diceva Carducci. Ebbene, nonostante questa contraddizione, Antonio era l'uomo delle contraddizioni, ha voluto essere rappresentante del Sindacato scrittori, perché credeva nella concezione unitaria dello scrittore come operatore mentale, come operatore di cultura, e quando ha dovuto fare i conti con l’entrata e l’uscita, Antonio ha saputo anche mortificarsi andando a chiedere per altri. Per questa incuria è giunto a realizzare la follia di fare un “Quotidiano dei poeti”, qui a Caprarica o a Lecce-Caprarica, che si vendesse a Milano; un'operazione assolutamente al di là di ogni dimensione mentale di noi provinciali (non in senso mentale ma in senso geografico)./ Antonio come leader di questo popolo di formiche, come diceva Tommaso Fiore, ha voluto creare un quotidiano di poeti in un paese in cui la lettura non è l'abitudine prevalente dei giovani - pensate che un italiano su sei, tutt'al più uno su quattro legge un giornale -, ha voluto fare questo “Quotidiano dei poeti”, non di poeti meridionali soltanto, non c'era questa concezione campanilistica o paesanistica se volete, ma di tutto il mondo, in un giornale fatto a Caprarica-Lecce, ma venduto a Milano.

Ebbene, mentre a Milano se ne sono vendute settecento copie, a Lecce se ne sono vendute quaranta. Questa è stata la mortificazione più grande per Antonio, quella di non vedere corrispondere la solidarietà di noi compaesani, comprovinciali, corregionali all'importanza delle cose che egli riusciva a fare superiori cento e mille volte alle forze di cui egli riusciva a disporre./ Questo il grande merito di Antonio, di aver agito per altri. Ma Antonio non era soltanto questo, era colui che sollecitava la pigrizia del singolo, e ve ne do una mia esperienza personale: Antonio è venuto a casa mia, mi ha costretto a scrivere cose che non avrei scritto. I religiosi vedono i seminatori e i pescatori d'anime, Antonio era un minatore di coscienze. I minatori entrano nel ventre della terra, entrano nella oscurità che illuminano con le scarse fiaccole che portano sopra i loro elmetti, Antonio scendeva nella coscienza, e non mia soltanto ma di tanti suoi amici che hanno dovuto subire l’escavazione culturale. Antonio ha saputo scuotere con il martello pneumatico della sua intelligenza l'inerzia di tanti uomini; è entrato nella coscienza anche degli amministratori pubblici, è riuscito ad ottenere dal Presidente della Provincia, dal Presidente della Regione, forse dal Sindaco, non lo so quali fossero le sue relazioni qui in Caprarica, cose che mai né il Presidente della Provincia, né il Presidente della Regione avrebbero mai pensato di fare. Ha saputo riunire artisti di diversa estrazione, far sì che dal gruppo nascesse questa nuova coscienza della cultura salentina che fino al 1960 è stata la cultura fatta di uomini solitari, di gente che ha vissuto per se stessa, che ha scritto le proprie opere, contenta di averle scritte e del consenso che gli era intorno. Una eredità tardo-ottocentesca che ha i suoi simboli nel grande Cosimo de Giorgi di Lizzanello, che ha descritto La Provincia di Lecce, prima per sé, poi per i Salentini che gli erano vicini; nel grande archeologo Carlo Alberto Blanc; in Umberto Gotti, che trovava tracce di un insetto che chiamava Gneulopis (oggi soltanto sappiamo che questa scoperta era importante), era soddisfatto per il riconoscimento che gli veniva dagli amici./ Antonio, attraverso la creazione prima di “Caffè Greco” e poi di “Pensionante de’ Saraceni”, successivamente con quella unione di poeti e pittori intorno alla "Corte del Saraceno", ha saputo creare dei gruppi che hanno scosso un’arcaica mentalità. Oggi l'intellettuale salentino non è appagato di sé. Antonio Verri ha saputo superare questo isolamento e creare la grande avventura culturale che rende oggi la cultura salentina non certamente più grande di quella che fosse un tempo, o più grande delle altre che possano compararsi a lei, ma non più solitaria, aperta, invece, al confronto, allo scontro, al dibattito con le altre culture. Ha fatto sì che si traducesse in realtà ciò che avevano cominciato a fare Ernesto Alvino, con la “Vedetta Mediterranea”, Cesare Massa con la “Libera Voce”, Vittorio Pagano con il “Critone” e, attraverso la collaborazione di scrittori e poeti che vivevano al di fuori della Puglia, ha saputo far diventare fermento, vitalità, confronto, dibattito, la cultura salentina dei giovani./ Questo è l'Antonio che ho voluto rammentare, non a voi, ma a me stesso. Queste sono le ragioni per le quali oggi io sono ben felice che voi abbiate la possibilità di accorgervi di quali valori fosse portatore Antonio, di quanti errori si siano fatti da parte di noi concittadini e comprovinciali nel valutarlo un sognatore, un pensatore astratto. Sono contento, non certo che sia morto, sono contento che sia stata data un'opportunità per valutare quanto lui fosse grande non come poeta, come scrittore, come compositore di drammi, come pittore, ma come uomo, che è la cosa più importante: portatore del valore più alto oltre a quello dell'intelligenza, la solidarietà. Così ho voluto raccontarlo a voi. Antonio, assente in questa circostanza, ma presente nella storia della cultura salentina e presente nel ricordo di amico intelligente e buono».

Ennio Bonea ha scritto tanto per Antonio L. Verri; verrà il giorno in cui qualcuno si metterà a fare una seria ricerca su questi suoi scritti, metterli insieme e darne una meritevole pubblicazione. Io mi permetto qui di citare quelli che mi vedo sotto gli occhi.
Il primo scritto, molto bello e assai triste, è quell’Oltre il tempo che dà notizia della disgrazia. BONEA scrive:
«Si sono svolti ieri a Caprarica di Lecce, alla presenza di centinaia di persone, i funerali dello scrittore e poeta Antonio L. Verri, morto tragicamente in un incidente stradale avvenuto nella notte tra sabato e domenica scorsa sulla provinciale Cavallino-Caprarica. Verri, che aveva 44 anni, era molto conosciuto nel mondo della cultura per il suo costante impegno intellettuale. Tra i suoi romanzi vanno ricordati Il pane sotto la neve; La Betissa; I trofei della città di Guisnes; ed una apprezzata produzione poetica. Al termine del rito religioso, dopo l'intervento del sindaco, ha preso brevemente la parola Vittore Fiore sottolineando il grande patrimonio umano e culturale lasciato da Verri: un'eredità - ha detto Fiore - da non disperdere per consegnarla alle future generazioni. Intanto, come prima iniziativa, il Comune di Caprarica dedicherà l'annuale premio di poesia in vernacolo ad Antonio L. Verri./ Uno schianto notturno sulla consueta strada del ritorno verso casa, con il pensiero rivolto agli incontri di domani o forse ai discorsi lasciati aperti tra gli amici, salutati qualche minuto prima, colpito alle spalle, a tradimento, senza possibilità di difendersi dalla follia della velocità omicida. Antonio ha perduto in un attimo passato e futuro andando, lui poeta, nell'oltre tempo montaliano./ Se pure avrà avuto un attimo per pensare a se stesso, egli avrà sorriso di quel che avveniva come una soluzione della sua esistenza vissuta nella magia della casualità, del colpo di dadi, non lo avrà sfiorato neppure lo scenario del vuoto tragico che si apriva per noi, i suoi amici che lo avremmo atteso invano negli appuntamenti già fissati per le tante incombenze e le iniziative programmate./ Una vita breve ma intensa la sua, fatta di corse mentali, di intuizioni poetiche, di disegni operativi che avvolgevano con una patina di surrealtà la concretezza delle proposte./ La sua vita è stata costellata di una corona di iniziative che avevano i pilastri di sostegno nella cultura e le costruzioni che vi poggiavano, i contorni modulati e armonici della poesia: "Caffè Greco", "Pensionante de' Saraceni", la vendita “a banco” nelle strade delle sue edizioni e quella dei salentini di altri editori, "Ballyhoo" è la più fantasiosa e azzardata, "Quotidiano dei poeti", che per quindici giorni da Lecce veniva diffuso in tutta Italia, infine l'istituzione a Cursi di una originale, eccentrica ma preziosa biblioteca./ Ecco la parte piu interessante e costruttiva di Antonio L. Verri, poeta, romanziere, editore, direttore di riviste, intellettuale meridionale: quella rivolta a superare l'isolamento geografico salentino con la vicinanza tra poeti e scrittori di regioni e Stati diversi, in una sintonia spirituale che annullasse distanze di luoghi e ritardi di conquiste culturali./ Irrequieto e vagabondo nello spirito, Antonio non ha somatizzato nell’ansia della fuga dal Salento il desiderio di successo e di riconoscimento; ha percorso l'Europa, dalla Svizzera, con una breve esperienza di emigrazione, alla Francia, alla Germania, alla Grecia, ma il centro del suo essere cardio-cerebrale è sempre stato il Salento da riscattare anche sul piano del vecchio stereotipo dell'intellettuale solitario e appagato. I suoi rapporti di corrispondenza e di amicizia con poeti brasiliani e russi, bulgari e francesi sono stati spesso tradotti in rapporti personali con presenze da ospiti nel Salento dove Lecce e Caprarica, estensione di Caprarica di Lecce, erano ormai, per lui, i centri irradianti della sua visione di una terra non più coloniale, ma settore del grande villaggio del mondo./ Questa è l'importanza della personalità di Verri nella storia della cultura salentina, indipendentemente dalla valenza della sua opera di poeta, di romanziere, di pittore, che dovrà avere una revisione critica generale, dopo la prima indagine eseguita da Nicola Carducci./ Io desidero ricordare l'uomo, fondamentalmente buono, generoso, altruista, laico sacerdote della poesia, religioso fedele dell'amicizia come testimonia l'ultimo scritto di polemica onestà mentale apparso su “Titivillus” a tutela di Salvatore Toma; desidero esprimere la mia personale angoscia per l'amico perduto, stimolatore della mia pigrizia, collaboratore intelligente e prezioso, compagno di indimenticabili serate di dialettica convivialità, ahimè non più ripetibili./ Spero solo che nel montaliano oltremondo, tra i poeti e gli artisti che lo popolano, ritrovi la compagnia, forse non più chiassosa, dei suoi cari Salvatore (Toma) e Edoardo (De Candia), arrivandoci con il suo Naviglio innocente: “Nave che solca senza impedimento/ che chiude ma può aprire/ al  vuoto imprevedibile delle ore”» (da «Quotidiano di Lecce», 11 maggio 1993, ma anche in Salento, subregione culturale, vol. III, 1° t., p. 367-9).

BONEA scrisse poi C’è un poeta sulle strade della memoria:
«Ricordare, proprio nel significato di riportare al cuore, Antonio L. Verri alla scadenza annuale della sua “sciagurata” scomparsa, non è la formalità della celebrazione di un poeta che non c'è più, ma un atto mentale che compio quasi ogni giorno, sia volontariamente, quando rimpiango la mancanza della scampanellata che me lo annunciava alle ore più strane per chiacchierate di contenuto pratico che finivano spesso a considerazioni planetarie, sia involontariamente quando tra l'inevitabile disordine di carte, libri e giornali, spunta il suo nome o, nel tragitto domestico, lo sguardo, anche distratto, cade su qualche sua composizione pittorica che me lo riporta in mente. Mi accade, ora che non è più, di conoscerlo meglio, attraverso la descrizione che suoi amici e coetanei mi fanno di lui, sempre così affettuosamente riservato e compostamente amichevole nei miei confronti, da vederlo il vulcanico e perfino scomposto protagonista di riunioni conviviali, di improvvisate gite per feste paesane o per silenziose contemplazioni di qualche paesaggio o rudere antico. E Maurizio Nocera, suo fedele sodale, compagno di avventure editoriali, molte volte succube amorevole dei suoi poetici furori, e oggi custode religiosamente laico della sua realtà umana e letteraria, me l’ha così limpidamente descritto, nelle non rare e cortesi trasferte automobilistiche per raduni culturali, da farmi comprendere quanto di autobiografico ci sia in quel passaggio de Il naviglio innocente (Erreci, 1990) a pagina 94: “Sono vittima di una incredibile seduzione e amo l'immediato illuminarsi, l'odeon delle figurazioni, della carta, dell'accesa stravaganza”.  Non sembri una cosa voluta quel che ora scrivo: mi è capitato fra le mani in questi giorni il dattiloscritto di un breve romanzo, La salle de bain, che Verri mi dette in dono alla fine del 1991, con questo dedica: “Caro prof., per quegli amori in comune (in fondo però, cerco un prelettore di valore) per quel titivillo creativo che segretamente impazza... In comune anche quello. Ciao, Antonio”./ Devo dire che ho compreso molto meglio ora quell'accenno al diavoletto Titivillo che Antonio riusciva a “vedere impazzare” nella mia matura, per non dire senile, ponderatezza che, in un certo senso, lo comprimeva nei nostri incontri. Questa è dunque la mia quasi quotidiana “celebrazione” dell'amico poeta-scrittore ucciso dall'incoscienza di un “discotechista”; ma quella utile, per chi abbia bisogno di rammentare, viene da Maurizio Nocera, ancora lui, con una plaquette in bozza (del Laboratorio Santa Maria del Paradiso, 1994), Antonio, Antonio!, scritta di getto quasi, il 10 maggio 1993, giorno seguente la tragedia, e da Cosimo e Salvatore Colazzo, con Antonio Verri: Il suono 'casual' (Madona Oriente, Maglie, 1994, pp. 64). Nocera ha tracciato un diario delle “ore” trascorse insieme con Antonio e con le rispettive mogli Ada e Licia, venerdì 7 maggio dalle quattordici alle ventidue: i discorsi spiccioli e premonitori, la sosta a Nardò per la mostra di De Candia, la visita al barbiere Luigi Stifani, il musico delle tarantate, il ritorno a casa. Del sabato 8 maggio, Nocera che era a Taranto, dà il racconto della giornata, in modo indiretto, dalla visita al cimitero con la mamma (è la data della festa) alla cena a casa di Giuseppe Tondi, al ritorno solitario con la vecchia 126 che Fernando Bevilacqua riuscì a far partire per il viaggio senza ritorno. Il racconto è racchiuso, come tra parentesi, da una “lauda” di taglio jacoponiano, nella quale dilaga lo strazio gridato, rabbioso, implacato dell'amico rimasto orfano, incapace di offrire un sostegno alla madre che, nel pianto urlato da prefica, invoca il figlio “bianco e profumato”, “mmienzu la purvere t'ànnu lassatu”. Venti pagine di una struggente e sincera partecipazione che ogni commento potrebbe offendere./ Cosimo e Salvatore Colazzo hanno realizzato un progetto studiato con Antonio: un omaggio al musicista americano John Cage (1912-1992), allievo di Arnold Schoenberg, divenuto famoso per una concezione rivoluzionaria della musica e per l'estrosità delle sue composizioni, una delle quali, ad esempio, intitolata 4’ 33”, vuole, scrive C. Solazzo, “incorniciare il silenzio/ rumore in una situazione di concerto”, ragion per cui il pezzo musicale “non dice nulla, è semplicemente tempo che trascorre”. Il personaggio era tale da sedurre Verri, sempre attratto dall'inusitato-espressivo e dalla contestazione al consueto-ordinario, e i suoi amici-studiosi Colazzo, attenti e solidali, nella coscienza di meridionali-provinciali, ad ogni espressione di protesta clamorosa. Insieme avevano previsto, ed hanno ora realizzato in assenza/presenza dello scomparso Antonio, tredici lavori grafici su Cage elaborati e commentati da Verri, con due saggi di musicologia a loro firma./ Il tredicesimo collage di Verri, reca, a fronte della pagina che riproduce il quadro, quattro versi scritti per il musicista morto ottantenne; era inconsapevole Antonio di scrivere anche per se stesso: “Quando noi non saremo più,/ i suoni ci saranno ancora / la vita non finisce con noi,/ molto semplicemente ci sopravanza”» (da «Quotidiano di Lecce»,  venerdì 6 maggio 1994)

Infine, di BONEA
Mi ritrovo oggi sotto gli occhi la bellissima recensione scritta da Ennio Bonea e pubblicata sulle pagine del Quotidiano di Lecce, il 7 febbraio del 1996, al romanzo postumo di Antonio L. Verri, esemplare testimonianza di ricerca linguistica e letteraria, Zurigo ai tempi di Bucherer. Scrive il Professore: «A poco più di due anni dalla tragica scomparsa di Antonio L. Verri, avvenuta nel maggio 1993, la Banca popolare pugliese pubblica nella collana “Conto aperto”, diretta da Aldo Bello, un suo romanzo postumo, Bucherer l'orologiaio (Bpp, Matino, 1995, pp. 1l0) presentato a Lecce qualche sera fa, dai due introduttori del libro, Aldo Bello e Antonio Errico e da chi scrive. Questo inedito, propone un'analisi completa dell'opera di Verri che integri l'unico puntuale esame pubblicato su di lui da Nicola Carducci, Il sentiero letterario di Antonio L. Verri. Apparso nel 1989, esso prende in considerazione le opere, in poesia e in prosa, scritte sino al 1988, e cioé: Il pane sotto la neve («Pensionante de' Saraceni», 1983); Il fabbricante d'armonia. Antonio Galateo (Errecci, 1985); La Betissa («Sudpuglia», 1987) e I trofei della città di Guisness (Il Laboratorio, 1988). Nella precisa analisi delle opere, mettendo in luce i1 “gioco verbale”, la “narrativa aggressiva, impietosa, dissacrante” fa notare la “coesistenza di vari linguaggi, di tecniche e di codici disparati e persino una esibita profluvie barocca magmatica e generosa” e mette in evidenza l'elemento parodico come tratto pertinente della sua scrittura. La tradizione letteraria esterna, svaria dai salentini Bodini, Pagano, V. Fiore, Rina Durante (non consento con la citazione di Comi e aggiungerei i non rammentati S. Toma e, per le implicazioni esistenziali l'artista E. De Candia), ai grandi ispiratori di suggestioni estetiche e stilistiche: Vittorini, Gadda, Kerouac, Ginsberg e Beckett, Joyce, Queneau... Soprattutto quest'ultimo, insisterei, e la sua Officina di letteratura: potenziale, l'Oulipò dei cui giochi combinatori verbali si dichiarava innamorato. Per ragioni cronologiche, restano escluse da questa organica revisione le opere successive, Il naviglio innocente (Erreci, 1990), le partecipazioni alle opere collettanee che egli stesso organizzava: Le carte del Saraceno (Pensionante, 1990), Mail Fiction, (Pensionante, 1991) Ballyoo Ballyoo (Pensionante, 1990), I luoghi di frontiera (Erreci, 1991) e, ovviarnente, quest'ultima che, a differenza degli interventi di opere a più voci per lo più brevi e di scrittura a livello dello standard d'uso come quella dei suoi articoli giornalistici e delle note d'arte, teoriche e di polemica, ritorna alla sua stilistica creativa, personale, immaginaria. Come la intendono P. Albani e B. Buonarroti nel loro dizionario, Aga Magéra Difura (Zanichelli, 1994), come l'intende U. Eco per lo Joyce di Finnegans Wake e non un idioletto che nella ripetitività trova la chiave interpretativa. Bucherer l'orologiaio è un'opera difficile, non è un romanzo di evasione, che si possa leggere, come diceva Giacomo De Benedetti dei romanzi “leggeri” in poltrona con il plaid sulle gambe e, magari, un wiskhy vicino. È fedele, Verri, alla sua estetica esplicitata ne I trofei della città di Guisnes (“il narratore continua, cesella, fonde, lega, slega, squaterna, è appeso al suo declaro”), ribadita ne Il naviglio innocente, dove lo vede seguire “le sue complessità e le mescolanze e le divagazioni e i capricci, sempre più giocoso, sofistico, legato al suono persistente, al divorante brusio” fino a confessare: “Sono vittima di una incredibile seduzione e amo l'immediato illuminarsi, l'odeon delle figurazioni, della carta, dell'accesa stravaganza”. In questo libro postumo, Verri fa esplodere la sua immaginazione, senza i limiti fissati dalla logica: “Questa storia nasce dalle calmie, da parole serbate nel ventre delle balene”, dalla realtà si innalza, come il soffio delle balene, nella sfera della surrealtà, in una fusione di stile, ora fluente, ampio, ora di fraseggio franto, spezzato, telegrafico; ma sempre elegante, poetico, fonicamente suggestivo però svincolato, come deve essere una scrittura automatica surrealista, dai nessi logici del linguaggio quotidiano, non creativo. Non è tuttavia una sfera di follia, peraltro elogiata da Erasmo, quella verriana, ma di sfrenata libertà creativa che poggia nella realtà e la supera nella surrealtà. Si veda come è vera, è super-vera, Zurigo: “Questa terra da fine del mondo, di grandi alghe giganti, di grandi passaggi deserti, Zurigo incontro di correnti... Zurigo mi dà l'idea di questo corpo enorme e di una valle di ciliegi e di una valle di alberi di carta... Zurigo è sonora, assurda, verticale. La sommità di lucente, duttile stagno, la base di molle argilla. È una città policroma, un mischio di lingue”. Ma è anche la città dell'emigrazione, anche della sua, un tempo, e il realismo della realtà la vince sulla immaginazione che la surrealizza: “Baracche prefabbricate che poggiano sui putridi piloni nel canale, un odore di catrame e di legno marcio, lontano dai broccati in un mercato, da ogni suono familiare, naufraghi, avventurieri, cercatori, in questi canali lunghissimi, tra suoni mozzati e qualcosa che tormenta nel sonno”. In Antonio L. Verri creativo, nelle cui pagine scriveva A. Errico: “le parole si riproducono per partenogenesi” l'essenza terragna della sua salentinità antropologica e culturale, senza scomparire, si è sostanziata dell'innesto oulipiano, come in Bodini si era mescolata con la linfa surrealista spagnola. Svincolare i due autori dal marchio del localismo, al quale li costringono la debolezza della editoria locale e l'insipienza della critica metropolitana, è compito di una critica più accorta, meno razzista» (da «Quotidiano di Lecce»,  7 febbraio 1996).

Ovviamente, di Bonea c’è ancora tanto altro su Verri. Prima o poi verrà fuori.


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