Antonio Verri con la paglia in una foto di Fernando Bevilacqua virata in verde-giallo |
Riflettere sull’opera del poeta Antonio Leonardo Verri pare più che mai necessario a 20 anni dalla morte. Credo che un punto di partenza sia quello di non trasformare questo ventennale in una commemorazione, bensì in un nuovo inizio, a partire da un interrogativo a cui bisogna necessariamente rispondere per poter procedere nel migliore dei modi verso un dibattito il più serrato possibile attorno all’opera ed all’attività editoriale e al contempo intellettuale dell’autore. L’interrogativo che oggi dovrebbe segnare il procedere verso l’opera mi piace pensarlo come una riflessione attorno a quella che dovrebbe essere l’importanza di Antonio Verri oggi. Perché Antonio Verri oggi? Lo scorso 18 maggio, presso Tenuta Monacelli, in località Cerrate, s’è tenuta la prima presentazione del libro di Rossano Astremo “Con gli occhi al cielo aspetto la neve. Antonio Verri, la vita e le opere”, edito da Manni. Con l’autore intervenivano Carla Petrachi e Massimo Melillo. Proprio Melillo col suo intervento sottolineava come, secondo lui, con la morte del poeta sia finito un po’ tutto. Prima d’arrivare alla morte di Verri e a quanto è seguito, in questi 20 anni, occorre tratteggiare la figura del poeta, dell’intellettuale, dell’editore, a partire dal lavoro di Rossano Astremo che attraverso una metodologia ampia è riuscito a focalizzare alcuni punti salienti dell’operatività di Verri, della sua importanza per il panorama letterario italiano del secondo novecento. A partire dalle relazioni amicali, dalle collaborazioni, Astremo giunge all’analisi delle opere tratteggiando quelle che sono state le influenze, i punti di riferimento per Verri, che anche attraverso la fitta rete relazionale si muovevano all’interno della sua opera. Ricollegarsi ad un tempo, non troppo distante, ma profondamente diverso dal nostro, non ancora divorato dal surplus mediale di oggi, impone uno scavo storico e sociale, comparato, e quindi culturale, del contesto in cui l’autore ha operato per poi giungere alla sua opera, proprio come tratteggiato da Astremo. Fra i punti di riferimento di Verri possiamo annoverare lo scrittore irlandese James Joyce, che nel suo “Ritratto dell’artista da giovane” scriveva che “il poeta è l’intenso centro vitale del suo tempo”. Cos’ha rappresentato Verri? Certamente ha avuto il merito d’agire ed essere un collante all’interno di una provincia che lui stesso definiva “difficile” perché “rarefatta” e possiamo aggiungere spesso caratterizzata da uno spiccato individualismo. La capacità del tesser trame, instaurare rapporti in un contesto dilatato, difficile, e ancora di più la capacità di contestualizzare tali criticità all’interno di un panorama nazionale ed internazionale inseriscono Verri in quel filone letterario e socio-politico che dai Fiore (Tommaso e Vittore) fino a Bodini e Dòdaro inseriscono le linee letterarie pugliesi in una dimensione europea capace di dialogare coi luoghi e di leggerli alla luce di una prospettiva internazionale, una weltanschauung ampia che permette a quelle trincee della meridionalità di respirare il mondo, nel mondo, senza scadere nel localismo becero del provincialismo contemporaneo, anzi manifestandosi nella pratica di uno scardinamento costante dei linguaggi, dei luoghi, delle operazioni culturali. La prospettiva meridionalista è da sempre lontana da ogni gabbia localistica, anzi, come lo stesso Verri sottolineava nella breve nota biografica inserita nella prima edizione del romanzo “I Trofei della città di Guisnes” (Il Laboratorio, Parabita 1988) scrivendo “Ha aderito al Movimento Genetico di F. S. Dòdaro, una delle linee portanti del Salento europeo, insieme al segno di E. De Candia, alla poesia di S. Toma…”, possiamo intuire come la connotazione territoriale non sia mai fine a se stessa, mai gabbia o freno, ma la necessità di una metodologia rigorosa, scientifica, capace di comparare e mettere in relazione e respirare il mondo piuttosto che la provincia, partire dai luoghi per maturare consapevolezze che aprano al mondo. Se Verri è ingabbiato non lo è a causa della prospettiva meridionalista, che ripeto aveva trovato in Tommaso Fiore il giusto interprete per un respiro internazionale – ed in quel solco ha operato il poeta di Caprarica – ma è, semmai, ostaggio dei vuoti provincialismi delle assenze istituzionali che da sempre caratterizzano il nostro territorio. Tutto questo risulta oggi necessario per riprendere l’affermazione di Massimo Melillo, precedentemente citata, e l’interrogativo iniziale. Qual è la necessità di Antonio Verri oggi? Quale la sua importanza? È realmente finito tutto nel maggio di 20 anni fa?
Mi piace pensare a questo interrogativo rispondendo con quanto più volte scritto e affermato da Mauro Marino, amico e collaboratore di Antonio Verri, che il 18 maggio rispondeva a Massimo Melillo affermando che il lavoro di Verri non era per la sua generazione, che in realtà non è finito nulla, ma che quel lavoro, quell’operare, era già per le generazioni successive. Pensare alle generazioni successive in relazione all’operare di Antonio Verri significa tener conto di quanto fatto in questi ultimi 20 anni e di quanti siano quei giovani che in quel modo di lavorare, in quella costanza, in quell’approccio culturale come reciproco scambio e fitte trame abbiano trovato pane quotidiano, modus operandi che negli anni ha portato proprio Mauro Marino, assieme all’attore Piero Rapanà, ad incanalare quel modo di operare in quello che sarebbe diventato il Fondo Verri di Lecce, ma penso anche a quanti altri abbiano trovato in quel luogo modo di dare avvio a intense iniziative culturali. E penso, ancora, a quanto proposto negli anni, con costanza e impegno, da Stefano Donno e Luciano Pagano, ma anche dallo stesso Rossano Astremo. Mario Desiati, introducendo la riedizione de “I trofei della citta di Guisnes” (Abramo Editore, Catanzaro 2005), scriveva: “Il senso è questo: uno scrittore di provincia per nulla distribuito, poco conosciuto, poco letto, poco letto anche all’Università e nelle riviste specialistiche, aveva contaminato la scrittura di un gruppo di ragazzi alle prese con il sacro (forse più profano) fuoco della poesia”. In questi 20 anni ci sono state iniziative, l’opera di Verri è stata analizzata, se ne è scritto, dunque, se ne è parlato, spesso grazie al fare di singoli operatori, troppe volte slegati dalle istituzioni o ignorati da queste. Quando pochi anni addietro ho discusso la mia tesi di laurea triennale, incentrata sull’opera di Antonio Verri, presidente di commissione era il prof. Angelo Semeraro, che mi si rivolse affermando che non aveva senso quanto da me proposto – ossia mettere in risalto quei motivi filosofici presenti nell’opera di Verri e che variano dalle esperienze del Surrealismo fino alle teorie sociali, filosofiche di Walter Benjamin (si pensi a quanto espresso nei “Trofei” in forma narrativa, alla porosità del sociale, alle dissolvenze mediali, l’immagine dialettica, o a testimonianza schiacciante lo sviscerato amore verso Benjamin manifestato col reportage “Portbou”), alla lettura di Bertrand Russell, solo per citarne alcuni, così come i riferimenti ad autori come Joyce o Queneau, alle esperienze sonore maturate dall’ascolto di John Cage, non prive di implicazioni teoriche trasposte in forma di romanzo, ecc – perché Antonio Verri, mi fu detto, “è un autore nostro, locale”. Ora, sono sempre partito dal presupposto che autori si è oppure no e penso: è racchiuso forse in quelle parole il limite dell’Università del Salento? Ciò che tiene in ostaggio Verri, la sua opera, non è, almeno in parte, l’indifferenza dell’Università? Il singolo operatore, slegato dalle istituzioni, sarà mai capace di portare la giusta attenzione che l’opera di questo poeta merita? Quali sono i motivi che potrebbero portare Antonio Verri all’interno dell’Università? Letterari, naturalmente. L’opera del poeta di Caprarica, come già detto, si inserisce in quelle linee di scardinamento del linguaggio, oltrepassamento del lorchismo salentino, dunque della poetica bodiniana, e nell’attraversamento dei generi si apre alla narrazione mondo, in un melting pot culturale, teorico, letterario. Socio-politici. Verri è stato un fine intellettuale, ed una miriade di testi sparsi in riviste varie lo testimoniano. Un fine cronista del suo tempo, un critico attento, il cui agire può essere inscritto in un tracciato che dall’impegno sociale del ciclostilato, e oltre, di Roberto Roversi (si pensi al Fate fogli di poesia, poeti) arriva ad essere una delle voci più pure del meridionalismo. E ancora, scavando nell’opera verriana, si pensi al Naviglio Innocente (Erreci, Maglie 1990). A espressioni di trance poetica, di rapporti alterati con sé, il proprio corpo, o il mondo, nell’ascolto intimo della sonorità poetica: “Ero sempre in tutto ma ero sempre più lontano dal mio corpo…in realtà, ecco, quanto più il mio romanzo da un soldo cresceva tanto più io perdevo in carnalità, quanto più il Declaro prendeva corpo tanto più il mio corpo si sfaldava”. E ancora l’attraversamento dei generi, nella divaricazione dei diversi stili, letterari, mediali, sociali: “La nave delle parole… Forse il suo corpo brulicava di video, certamente in essa viveva una unità di memorie, un attrezzatissimo archivio, un vasto bosco di impulsi. […] Aveva cominciato un giorno di tanto tempo fa, dopo aver scoperto d’essere stato nel suo corpo attaccato da vari alfabeti, da forme navicolari, allungate, da forme anche sfumate, incerte. Era l’inizio. Aveva subito decretato la morte dell’oggetto unico, della singolarità. Gli era apparsa una grande nave”. Mi chiedo, vale anche in questo caso, quanto più volte affermato dal poeta sonoro e lineare Lello Voce, che la critica contemporanea, l’accademia, sono impreparate ad affrontare criticamente, in modo serio, l’interdisciplinarietà, l’approccio intermediale delle nuove scritture? Eppure, oggi, l’opera di Verri è ancora viva, è nelle nuove generazioni. Penso a quanto fatto, ancora da Mauro Marino, come direttore del quotidiano Il Paese Nuovo, modificando la testata, dunque sottotitolandolo come quotidiano di culture e riflessione sociale, ha messo in atto un ribaltamento giornalistico, per cui la quotidianità interpretativa della scrittura giornalistica su Il Paese Nuovo, come matrice necessaria e pratica di un esercizio scritturale ed interpretativo dell’elemento sociale, fa in modo che la cultura – e la scrittura giornalistica della stessa – escano dalla logica dell’evento per entrare in una dinamicità vitale che pone al centro dell’esercizio giornalistico la cultura come frutto di una dimensione sociale, quindi storica, del nostro esserci nel mondo. E non è tutto questo vicino all’esperienza del Quotidiano dei Poeti, fortemente voluto da Verri nel 1989? Un quotidiano di sola poesia, prima, un quotidiano con un approccio giornalistico culturale e al contempo letterario, oggi. Una diversa scansione del vissuto quotidiano. E ancora una volta, nonostante le difficoltà, mi pare di vedere che l’opera di Verri e la sua importanza siano soprattutto oggi, per le nuove generazioni, nell’intensità di una pratica letteraria che a vent’anni dalla morte dell’autore è capace di muovere ancora tanto.
Mi piace pensare a questo interrogativo rispondendo con quanto più volte scritto e affermato da Mauro Marino, amico e collaboratore di Antonio Verri, che il 18 maggio rispondeva a Massimo Melillo affermando che il lavoro di Verri non era per la sua generazione, che in realtà non è finito nulla, ma che quel lavoro, quell’operare, era già per le generazioni successive. Pensare alle generazioni successive in relazione all’operare di Antonio Verri significa tener conto di quanto fatto in questi ultimi 20 anni e di quanti siano quei giovani che in quel modo di lavorare, in quella costanza, in quell’approccio culturale come reciproco scambio e fitte trame abbiano trovato pane quotidiano, modus operandi che negli anni ha portato proprio Mauro Marino, assieme all’attore Piero Rapanà, ad incanalare quel modo di operare in quello che sarebbe diventato il Fondo Verri di Lecce, ma penso anche a quanti altri abbiano trovato in quel luogo modo di dare avvio a intense iniziative culturali. E penso, ancora, a quanto proposto negli anni, con costanza e impegno, da Stefano Donno e Luciano Pagano, ma anche dallo stesso Rossano Astremo. Mario Desiati, introducendo la riedizione de “I trofei della citta di Guisnes” (Abramo Editore, Catanzaro 2005), scriveva: “Il senso è questo: uno scrittore di provincia per nulla distribuito, poco conosciuto, poco letto, poco letto anche all’Università e nelle riviste specialistiche, aveva contaminato la scrittura di un gruppo di ragazzi alle prese con il sacro (forse più profano) fuoco della poesia”. In questi 20 anni ci sono state iniziative, l’opera di Verri è stata analizzata, se ne è scritto, dunque, se ne è parlato, spesso grazie al fare di singoli operatori, troppe volte slegati dalle istituzioni o ignorati da queste. Quando pochi anni addietro ho discusso la mia tesi di laurea triennale, incentrata sull’opera di Antonio Verri, presidente di commissione era il prof. Angelo Semeraro, che mi si rivolse affermando che non aveva senso quanto da me proposto – ossia mettere in risalto quei motivi filosofici presenti nell’opera di Verri e che variano dalle esperienze del Surrealismo fino alle teorie sociali, filosofiche di Walter Benjamin (si pensi a quanto espresso nei “Trofei” in forma narrativa, alla porosità del sociale, alle dissolvenze mediali, l’immagine dialettica, o a testimonianza schiacciante lo sviscerato amore verso Benjamin manifestato col reportage “Portbou”), alla lettura di Bertrand Russell, solo per citarne alcuni, così come i riferimenti ad autori come Joyce o Queneau, alle esperienze sonore maturate dall’ascolto di John Cage, non prive di implicazioni teoriche trasposte in forma di romanzo, ecc – perché Antonio Verri, mi fu detto, “è un autore nostro, locale”. Ora, sono sempre partito dal presupposto che autori si è oppure no e penso: è racchiuso forse in quelle parole il limite dell’Università del Salento? Ciò che tiene in ostaggio Verri, la sua opera, non è, almeno in parte, l’indifferenza dell’Università? Il singolo operatore, slegato dalle istituzioni, sarà mai capace di portare la giusta attenzione che l’opera di questo poeta merita? Quali sono i motivi che potrebbero portare Antonio Verri all’interno dell’Università? Letterari, naturalmente. L’opera del poeta di Caprarica, come già detto, si inserisce in quelle linee di scardinamento del linguaggio, oltrepassamento del lorchismo salentino, dunque della poetica bodiniana, e nell’attraversamento dei generi si apre alla narrazione mondo, in un melting pot culturale, teorico, letterario. Socio-politici. Verri è stato un fine intellettuale, ed una miriade di testi sparsi in riviste varie lo testimoniano. Un fine cronista del suo tempo, un critico attento, il cui agire può essere inscritto in un tracciato che dall’impegno sociale del ciclostilato, e oltre, di Roberto Roversi (si pensi al Fate fogli di poesia, poeti) arriva ad essere una delle voci più pure del meridionalismo. E ancora, scavando nell’opera verriana, si pensi al Naviglio Innocente (Erreci, Maglie 1990). A espressioni di trance poetica, di rapporti alterati con sé, il proprio corpo, o il mondo, nell’ascolto intimo della sonorità poetica: “Ero sempre in tutto ma ero sempre più lontano dal mio corpo…in realtà, ecco, quanto più il mio romanzo da un soldo cresceva tanto più io perdevo in carnalità, quanto più il Declaro prendeva corpo tanto più il mio corpo si sfaldava”. E ancora l’attraversamento dei generi, nella divaricazione dei diversi stili, letterari, mediali, sociali: “La nave delle parole… Forse il suo corpo brulicava di video, certamente in essa viveva una unità di memorie, un attrezzatissimo archivio, un vasto bosco di impulsi. […] Aveva cominciato un giorno di tanto tempo fa, dopo aver scoperto d’essere stato nel suo corpo attaccato da vari alfabeti, da forme navicolari, allungate, da forme anche sfumate, incerte. Era l’inizio. Aveva subito decretato la morte dell’oggetto unico, della singolarità. Gli era apparsa una grande nave”. Mi chiedo, vale anche in questo caso, quanto più volte affermato dal poeta sonoro e lineare Lello Voce, che la critica contemporanea, l’accademia, sono impreparate ad affrontare criticamente, in modo serio, l’interdisciplinarietà, l’approccio intermediale delle nuove scritture? Eppure, oggi, l’opera di Verri è ancora viva, è nelle nuove generazioni. Penso a quanto fatto, ancora da Mauro Marino, come direttore del quotidiano Il Paese Nuovo, modificando la testata, dunque sottotitolandolo come quotidiano di culture e riflessione sociale, ha messo in atto un ribaltamento giornalistico, per cui la quotidianità interpretativa della scrittura giornalistica su Il Paese Nuovo, come matrice necessaria e pratica di un esercizio scritturale ed interpretativo dell’elemento sociale, fa in modo che la cultura – e la scrittura giornalistica della stessa – escano dalla logica dell’evento per entrare in una dinamicità vitale che pone al centro dell’esercizio giornalistico la cultura come frutto di una dimensione sociale, quindi storica, del nostro esserci nel mondo. E non è tutto questo vicino all’esperienza del Quotidiano dei Poeti, fortemente voluto da Verri nel 1989? Un quotidiano di sola poesia, prima, un quotidiano con un approccio giornalistico culturale e al contempo letterario, oggi. Una diversa scansione del vissuto quotidiano. E ancora una volta, nonostante le difficoltà, mi pare di vedere che l’opera di Verri e la sua importanza siano soprattutto oggi, per le nuove generazioni, nell’intensità di una pratica letteraria che a vent’anni dalla morte dell’autore è capace di muovere ancora tanto.
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