De Jaco in un disegno di Santa Scioscio |
a cura di Maurizio Nocera
«Sta nelle nuvole il nostro mestieree aspetta come un figlio
d’essere partorito»
(Aldo De Jaco)
Aldo De Jaco in una fotografia di Claudio Longo |
Aldo De Jaco (Maglie, 23 gennaio 1923 – Roma, 13 novembre 2003). Figlio di ferroviere, per questo amava i treni e le stazioni ferroviarie. Nel 1942, si iscrisse ad Architettura a Napoli, ma non si laureò mai. Nel 1944, inizia la sua attività di giornalista presso il quotidiano napoletano «La Voce». Visse a Napoli fino al 1963, poi a Roma, sempre militando nel Pci e, per questa sua attività politica, fu più volte rinchiuso in carcere (una prima volta a Napoli, ed una seconda volta (1967) ad Atene, durante la dittatura dei colonnelli, perché manifestava per la libertà degli scrittori antifascisti e democratici greci.
De Jaco esercitò la sua attività professionale di giornalista presso «L’Unità», «Paese Sera» e fu corrispondente e inviato per «il Contemporaneo», «Rinascita», «Prove», «Le ragioni Narrative», «Cronache Meridionali», «La Battana». Scrisse anche su molti altri giornali nazionali e salentini. Per alcuni decenni fu Segretario generale del Sindacato Nazionale Scrittori. Ha scritto libri di storia, di narrativa, di poesia, molti dei quali tradotti anche in Germania, Urss, Bielorussia, Grecia, Bulgaria, Romania, Cecoslovacchia e Cina. Ha scritto la sceneggiatura del film Quant'é bello lu murire acciso di Ennio Lorenzini e, per la Rai Radio Uno, collaborò alle venti puntate di Voci e volti della questione meridionale. Per la televisione, la Rai ha trasmesso Opere Teatrali con il titolo Nella città di mezzo, opera in due tempi. Del libro di De Jaco La città insorge: le quattro giornate di Napoli, del 1956, il regista Nanni Loy si ispirò per il suo film Le quattro giornate di Napoli (1962).
Opere
Racconto del Sud, Edizioni Sud, 1946 (non distribuito).
Le domeniche di Napoli, Einaudi, Torino 1954. Premio Salento (opera prima).
La città insorge : le quattro giornate di Napoli, Editori Riuniti, Roma 1956.
Una settimana eccezionale, Mondadori, Milano 1959. Premio Settembrini (Mestre).
Viaggio di ritorno, Einaudi, Torino 1966. Premio Castellamare.
Il brigantaggio meridionale: cronaca inedita dell'Unità d'Italia, Editori Riuniti, Roma 1969. Riedito nel 2005 da Editori Riuniti.
Colonnelli e resistenza in Grecia, Editori Riuniti, Roma 1970.
Antistoria di Roma capitale : cronaca inedita dell'Unità d'Italia, Editori Riuniti, Roma 1970.
Gli anarchici: cronaca inedita dell'Unità d'Italia, Editori Riuniti, Roma 1971 (Riedito nel 2006 da Editori Riuniti)
Di mal d'Africa si muore : cronaca inedita dell'Unità d'Italia, Editori Riuniti, Roma 1972.
Inchiesta su un comune meridionale : Castelvolturno, Editori Riuniti, Roma 1972.
I socialisti : cronaca inedita dell'Unità d'Italia, Editori Riuniti, Roma 1974.
Con finale in prigione, Marsilio, Venezia 1975.
Vocazione agit prop, Marsilio, Venezia 1975. Premio Calabria.
Diario tre esse 1975-76. Con testi di Aldo De Jaco. Società editrice unitaria sindacale, 1975.
I giorni della libertà : diario di tutti, 1943-1947. Editrice sindacale italiana, 1076.
Ieri oggi domani la cooperazione. Editrice Cooperativa, 1979.
Diario di un ospite ingrato, Editrice Ciminiera, 1981.
Napoli monarchica,milionaria,repubblicana, Newton Compton Editore, Roma 1982.
Nel giardino del cattivo amministratore. Levante, Roma 1983.
Nica libre : ovvero visita a una giovane rivoluzione. Il Ventaglio, Roma 1984.
I cinque anni che cambiarono l'Italia. Diario fotografico di noi tutti : 1943-1947, Newton Compton Editori, Roma 1985. Premio Fregene e Premio Presidenza del Consiglio.
Stazioni di posta. Edizioni Il Laboratorio, Parabita 1986. Premio Napoli.
La casa di tufo. Erreci edizioni, Maglie 1986.
Opere teatrali : il ciclo dello "Scialle nero" e il ciclo de "Il grande vecchio". Todariana editrice, 1989.
Dodici lettere da Varna. JN editore, 1990.
Il tappeto persiano. Erreci edizioni, Maglie 1992.
La città insorge : le quattro giornate di Napoli. Monteleone, Roma 1995.
In viaggio con Prodi, (A.De Jaco - M.Nardi). Monteleone, Roma 1996.
Napoli, settembre 1943. Dal fascismo alla Repubblica. Vittorio Pironti Editore, Napoli 1998.
Briganti e piemontesi : alle origini della questione meridionale. Rocco Curto Editore, 1998.
Fine di un gappista : Giorgio Formiggini e lo stalinismo partenopeo, Marsilio, Venezia 1999.
Un po' di Napoli in tre racconti. Vittorio Pironti Editore, Napoli 1999.
1943. La Resistenza al Sud. Cronaca per testimonianze. Argo, Lecce 2000.
Nc'era na fiata na muscia nchiata. Edizioni dell'U.N.S.
La valigia di cartone. Viaggio (negli anni '60) nell'Europa degli emigrati. Bleve, Tricase 2000.
Dopo Teano. Storie d'amore e di briganti. Lacaita, Manduria 2001.
Lungo viaggio di ritorno, Manni editore, Lecce 2002.
C'era una volta - poesia come memoria, Kurumuny, Calimera 2004.
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ALDO DE JACO E ANTONIO L. VERRI UN’AMICIZIA FONDATA SUI LIBRI
Maurizio Nocera
Aldo De Jaco (Maglie 1923 - Roma 2003) e Antonio L. Verri (Caprarica di Lecce 1949-1993) si conobbero nell’ambito delle attività del Sindacato Nazionale Scrittori, di cui presidente era il giornalista magliese, all’epoca corrispondente di «Cronache Meridionali», «l’Unità», «Vie Nuove», «Rinascita», «Produzione & Cultura», e contemporaneamente anche scrittore di alcuni tra i libri più belli scritti su e intorno al Mezzogiorno d’Italia, tra cui Racconto del Sud (Napoli 1946); La città insorge/ Le quattro giornate di Napoli (Roma 1956, Vibo Valentia 1995); Gli anarchici (Roma 1971); Antistoria dell’Italia unita/ Il brigantaggio meridionale (Roma 1980); La casa di tufo (Maglie 1985); Stazioni di posta. Poesie (Parabita 1986); Il tappeto persiano (Maglie 1992); La Resistenza nel Sud (Lecce 2000); Lungo viaggio di ritorno (Lecce 2002); C’era una volta. Poesia come memoria (Calimera 2003).
Oltre cinquanta sono stati i libri pubblicati da Aldo De Jaco a partire dai famosi “Gettoni Einaudi” scelti da Elio Vittorini e Italo Calvino. Per lungo tempo fu presidente del Sindacato nazionale scrittori (Sns).
Quando Antonio L. Verri conobbe per la prima volta Aldo De Jaco, aveva scritto già alcuni dei suoi libri più importanti, altri li stava scrivendo, tra questi: Il pane sotto la neve (per Otranto, per occasioni) (1983); Il fabbricante di armonia Antonio Galateo (1985); La cultura dei Tao (1986); La Betissa. Storia composita dell’uomo dei curli e di una grassa signora (1987); I trofei della città di Guisnes (1988); Gli atlanti di Ar (1990).
Io li conoscevo entrambi, anzi mi pare di ricordare che a presentare Aldo ad Antonio, forse fui proprio io, ché già da tempo ero socio del Sindacato Nazionale Scrittori e conoscevo il suo presidente per via della mia e sua attività politica.
Quando per la prima volta stesi il testo Antonio Antonio o dell’Amicizia (Istituto Diego Carpitella di Melpignano 1998; poi anche Il laboratorio di Parabita 2003), la copia della prima bozza fu per Aldo De Jaco il quale, il 9 maggio 1996, da Roma mi rispose così:
«Caro Maurizio,// ti scrivo con molto ritardo e me ne scuso. Il tuo dattiloscritto è da mesi sul mio tavolo e io non ho incominciato a leggerlo una sola volta con l'obiettivo di rispondere alle tue domande. Anche ora mi sono fermato alla metà del testo, a pagina 17, e ho deciso di scriverti subito per non accumulare troppo nel cervello le associazioni da fare e confonderle assieme. In effetti però non si tratta di molte cose ma di una che riguarda fondamentalmente l'impalcatura generale del tuo testo. Mi spiego: secondo me tu dovresti rimetterci le mani fin dal primo rigo (o verso) come i costruttori fanno dopo aver finito la costruzione generale di un palazzo e riaffrontare tutti i problemi, in definitiva quello generale della resa letteraria del testo approfondendone tutti gli aspetti di armonia - dal verso alla costruzione in sillabe. Ma questo, sia chiaro, non perché così non va bene ma perché la costruzione non è finita e ancora c'è da lavorare molto non per cambiare ma per approfondire, raffinare, rendere tattile l'immagine. Lo so che ti invito ad un lavoro che può essere così senza fine, ma non è questo il mio scopo, invece ti chiedo di riprendere la penna e approfondire l'intelaiatura, cedere all'armonia del verso ogni tanto - quando ti venga da dentro e abbia una ragione - approfondire insomma il monologo./ Perché ti dico queste cose? Perché a me sembrano indispensabili ma non per cambiare stile, modo, ma per approfondirlo, come può fare uno scultore con la creta, con la cartapesta. Per spiegarmi meglio dovrei a questo punto prendere una pagina e lavorarci sopra e mostrarti cosa intendo ma questa sarebbe una mera mistificazione e non sono per niente sicuro del risultato. Tocca a te farlo, tu ne hai la competenza. Sei come un pittore che a metà dell'opera sua e avendo costruito tutto il quadro dice: basta, ho finito. E non ha ragione. Deve approfondire ancora il colore, cercare nuovi accostamenti, nuove armonie. E sapersi fermare al momento giusto, senza esagerare ma cercando l'essenzialità, tenendo sempre presente che non si tratta di cambiare ma di raffinare e far diventare il tutto più essenziale, non cambiare ma accrescere l'entità dei significati, del dialogo, del raffronto con Antonio e con la sua parabola ormai spenta. Ti dico queste cose perché sulla base del risultato già raggiunto mi pare chiaro che tu puoi raggiungere anche l'altro, ma se tieni presente che lavorare sulle parole e più difficile, è più stancante che zappare o reggere un dolmen sulle spalle./ Ma vale la pena di farlo. Non c'è altro che sia così importante e non mi dire che non ce la fai, perché se sei giunto a questa tappa vuol dire che puoi andare avanti fino in fondo. Ed è necessario, non tanto per raggiungere un risultato (sulla base delle idee del conte di Lautréamont - non ricordo mai come si scrive - questo risultato c'è già) ma per renderlo più essenziale e non equivocabile addirittura non riferibile a un Amico ma all'Amicizia, non a una vicenda ma alla storia della vita. A questo punto mi fermo. E torno alla lettura. Arrivederci.// Aldo».
Seguii le istruzioni che Aldo mi diede in lettera e lavorai con furore a passione a quel poemetto. Poi gli inviai la seconda bozza appena prima che iniziasse l’estate. Come a ogni buona stagione facevo, andai (lo facevo ormai da anni) a Roma a prendere Aldo e sua moglie Ivana Slavova e con la sua vecchia macchina (io alla guida) portarli a Maglie, dove avrebbero trascorso l’estate. Da Maglie, la domenica del 29 settembre 1996, a quasi fine stagione, e poco prima che riaccompagnassi i De Jaco a Roma, Aldo mi scrisse nuovamente una lettera. Sempre sullo stesso argomento del poemetto. Questa:
«Caro Maurizio,// ricordo benissimo che quando mandavo qualche testo a Vittorini perché lo giudicasse, questi riteneva che il giudizio consistesse fondamentalmente (sempre) nel proporre modifiche e mi raccontava come quel racconto doveva essere, secondo lui. E io non toccavo neanche una virgola. Siamo arrivati al punto che una volta, alla seconda lettura del mio testo, il Critico si è congratulato con me per tutte le correzioni che avevo apportato alla mia operina seguendo i suoi consigli. E io non avevo cambiato neanche una riga./ Non sarò il tuo Vittorini. Ti metto in guardia dal fatto che a me è sembrato (leggendo la seconda parte del tuo poemetto) che tutto quello che ti ho scritto nella mia prima lettera non avesse più valore, non avesse più consistenza rispetto al fluire, allo scrosciare di questa grande cascata di parole, di immagini, di dialoghi di a tu per tu con Antonio che è la seconda parte (secondo i miei ritmi di lettura) del tuo poemetto.// In conclusione dunque qual è la mia opinione? Va bene o non va bene?// Non ci penso proprio a rispondere a questa seconda domanda ma se proprio vuoi saperlo ti dirò che per me leggere le tue pagine mi ha riempito di sorprese, perché mai mi ero imbattuto in un testo così evidentemente opera di un nipotino di Isidore Ducasse detto anche il conte di Lautrémont (se il tutto si scrive così) che è il patriarca di fine '800 del surrealismo. E cosa c'entra questo paragone con te, Antonio e questo vetero surrealista? Giudico il tuo testo così e non Antonio che mi accorgo di non conoscere affatto come poeta, come narratore e come pittore. L'ho conosciuto solo come tragico dissipatore di se stesso perché incapace (e questo è un merito) di entrare in guerra con gli altri.// In definitiva mi accorgo che questo tuo testo, che fittamente parla di Antonio e lo descrive come personaggio amaramente vivo, è su te che porta il mio discorso o forse ancor più su questa coppia di amici (Antonio e Maurizio) che sono anche complici e intimamente coesistono nel pantano della vita di provincia, che poi è identico al pantano senza spifferi della vita della grande società cittadina.// Ma tu vuoi suggerimenti mi pare... Ebbene io ritorno a proporti una rilettura attenta del testo al fine di asciugarlo all'essenziale - magari nello stesso tempo prolungandolo di approfondimenti - e mettere quelle scansioni che facilitano la lettura e i ritmi di essa per il lettore non voglioso di impegnarci la propria fantasia (o bisognoso di interpunzioni per essere certamente fedele alla tua lettura) cui si pone ora la domanda: ma sei sicuro che Antonio sarebbe d'accordo con queste osservazioni? No, non lo sono affatto. Sei riuscito a raccontarmi un Antonio che io realmente intravvedo nel passato, soprattutto nella sua tragicità e nel rifiuto delle forme (e i contenuti) della nostra estenuata società letteraria. Punto. Fermiamoci qui./ Arrivederci// Aldo».
Seguii ulteriormente i consigli che Aldo mi diede in lettera e sostanzialmente, o quasi, il risultato, sufficiente o meno che sia, è leggibile nelle due edizioni citate.
Ma per dire ancora del rapporto che c’era tra Aldo De Jaco e Antonio L. Verri, è utile leggere l’intervista che io e Verri facemmo nella casa di tufo dejachiana di Maglie il 4 maggio 1987, e la cui sbobinatura mi è costata una grande fatica. Il titolo lo metto adesso per la prima volta.
DOLCE RITORNO NELLA CASA DELLA MADRE A MAGLIE
(Intervista seria e serissima tra Aldo De Jaco, Antonio L. Verri e Maurizio Nocera)
VERRI: La prima, scontata e banale domanda: come e quando ti è venuta l’idea di fare lo scrittore?
DE JACO: Ho l’impressione che queste cose non è che sono come quando uno decide di fare l’idraulico. È un atteggiamento verso la vita. La prima cosa è il modo in cui ti atteggi a considerare la tua famiglia, i tuoi genitori, i tuoi parenti, il di più di spirito critico che hai, rispetto a quello che vedi. Poi c’è un’altra tendenza, quella cioè a voler cambiare la società. Questa non è di tutti gli scrittori, ma per quanto mi riguarda, così è stato. Quando scegli il modo di combattere per cambiare questa società e trovi che il modo è quello di narrarla, allora scegli di fare lo scrittore e non, per esempio, il politico, anche se la vita poi ti può obbligare a fare il politico, almeno per un certo periodo, ma la tua vocazione rimane quella di scrittore, quella di descrivere la società per indurre gli uomini a cambiarla.
VERRI: Ribatto ancora sulla storia dello scrittore. Nella scrittura, per te, conta l’invenzione, l’accostamento ai problemi reali o la trasfigurazione dei temi?
DE JACO: È difficile rispondere a questo quesito, perché con tutta la razionalità che dico di possedere, in effetti io scrivo testi, però, quando la materia si consolida in un’idea, in un testo, in alcune parole di un testo, allora si comincia a scrivere. In pratica, quando tu cominci a scrivere, hai appena una visione, ad esempio, di un volto, di una persona. In generale, per quanto mi riguarda, è una persona conosciuta davvero, una persona vicino alla quale sono passato, sono stato; è un atteggiamento, un gesto, nel quale tu credi di individuare la sintesi di quello che ti ha detto, cioè di quelle cose che sono le tue esigenze, la tua voglia di intervento; e allora quel gesto, quella sintesi cominci a descriverli. Può essere una ragazza bella, che fa l’amore con un tedesco. Ecco, questo è il personaggio del mio prossimo libro. Ho cominciato a scriverlo, poi sono mesi che la seconda tappa non arriva, forse non arriverà mai, però questo diventa l’elemento di verità intorno al quale costruire la bugia, il racconto, la sintesi di una verità più grande che è la vita che noi abbiamo attraversato negli anni ‘40. Questa è la tesi, questo è l’obiettivo del racconto, aggiungendo però a questo che non puoi scrivere come se fosse un qualcosa, una testimonianza di vita. No! È qualcosa che parte dalla vita, parte dalla realtà, parte cioè dalla considerazione mia su quella realtà, dal modo come la vedo, per individuarsi come cosa vista oggi. Lo scrittore non è uno storico, anche se scrive la storia di una vita.
VERRI: Quali verità, o quale verità difende lo scrittore oggi?
DE JACO: Non può esserci una risposta che valga per tutti gli scrittori. Se vuoi ti rispondo quale verità difendo io. Negli anni del dopoguerra, io scrivevo per dare conto della voglia di rinnovamento che c’era nel paese, nella gente, nelle contraddizioni della vita della povera gente. Le cose poi sono cambiate. Oggi, questo argomento per me è assurdo, tuttavia mentre prima erano appunto tradizioni anche elementari, come il pane, l’innamorato, il proprio desiderio di vivere e la propria paura di compromettersi con la vita, oggi queste cose non ci sono più, sarebbe un errore riprodurle. Le cose sono molto più dure ed anche molto più facili. E quindi con questa nuova realtà bisogna fare i conti, ed è quello che cerco di fare.
*
VERRI: Azzardo! Passo al laboratorio dello scrittore. Come lavori? Provi mai sgomento dinanzi alla pagina bianca? È questo il classico sgomento. Come lavori mi interessa e interessa anche ad altri.
DE JACO: Non è che lavori tutti i giorni. Moravia a questo punto direbbe che lavora 4 ore al giorno, perché si sveglia a tal’ora, fa questo a quest’altra ora, eccetera. Disgraziatamente nella mia vita ho dovuto molto lavorare per guadagnare abbastanza, per poi fare lo scrittore. Quindi il concetto di lavoro è legato più alla tragica esperienza di inviato speciale del giornale («l’Unità», «Paese sera», «Vie nuove», altri giornali), del correre avanti e indietro, di interessarsi di cose di cui in realtà non me ne fregava niente, interessarsene in maniera vitale, immettendo tutta la propria intelligenza in quella determinata cosa. Se nella mia vita ho fatto il giornalista è perché dovevo pur vivere, e per questo occorre lavorare in un certo modo. Ecco. Anche oggi, intendo in questi periodi che vivo, oggi io sono in pensione, non vorrei essere troppo ovvio, ad un certo momento si cominciano a sentire i calci dell’ispirazione nella pancia, nell’addome. E tu a questi calci, a un certo momento, devi dare una risposta, altrimenti non riesci a fare neanche il mestiere di giornalista, e capita così che cominci a scrivere un libro. E poi, a seconda di quello che devi scrivere, ti muovi. A me, recentemente, è capitato di scrivere dei racconti. Mi è accaduto un qualcosa che paragono a quanto mi accadde all’inizio della mia attività di giornalista, cioè di sentire forte la necessità di scrivere, sensazione che ti prende per tutto l’arco del racconto, per cui quando smetto è finito anche il racconto stesso.
VERRI: Tu sei quello degli interventi, tre, quattro volte sulla stessa pagina di stesure diverse, addirittura di penne di colore diverso.
DE JACO: Le penne di colore diverso sono un motivo tecnico. Perché tu scrivi una cosa e poi vuoi provare a correggerla, e quando correggi cambi penna, perché così la correzione viene più chiara; e siccome le correzioni sono tre o quattro e allora è bene che ci sia questa cosa, è un espediente tecnico, del quale si può anche fare a meno. Infatti, è da tempo che non l’adopero più, ma il problema è che quando scrivi una pagina, almeno non mi capita di scrivere una pagina e buttarla via per poi scriverla daccapo, può essermi capitato qualche volta, ma in genere su quella pagina proprio si scava la tua scrittura, tu hai cominciato con una frase che poi la correggi, la ricorreggi, la rimetti a nuovo, e se non ce la fai più, prendi un altro foglio e copi. Non ci sono tre o quattro stesure. Io non sono uomo da molte stesure; sono un uomo da molti passaggi, del correggere, seguire l’armonia della frase, per superare gli errori, l’errore, ad esempio, di ripetere la stessa parola. Sono cose cui bisogna stare molto attenti. Recentemente ho cominciato a leggere il romanzo di un mio amico. Beh! La prima frase di due righi e poi alla terza pagina, la ripetizione del termine “verso” con più significati, mi hanno bloccato, mi hanno impedito di continuare nella lettura almeno di quella pagina. Questa è una questione di mestiere, spesso vuol dire che chi scrive non se ne accorge nemmeno, e se tu fai questo tipo di rilievo, chi ti ascolta storce il muso, a volte senza neanche sapere perché. Ma me lo permetterai, io il perché lo so, perché c’è un’armonia interna alla frase alla quale devi essere fedele.
VERRI: Anche se la letteratura va avanti un po’ per disarmonie. Senti Aldo: Salento, la tua fanciullezza, la tua giovinezza è salentina, anzi magliese, che rapporto hai con la tua terra?
DE JACO: Guarda, la mia giovinezza non è magliese, cioè lo è in parte, ma bisogna che chiarisca. Io non ho mai abitato nel Salento, non ho mai abitato a Maglie. Quando sono nato, sono cresciuto nella pancia di mia madre a Lecce, e poi, come si usava allora, credo anche adesso, essendo il primo figlio, quando stavo per nascere, mia madre è venuta a Maglie a partorire. Questo mi ha creato un complesso terribile, una sorta di complesso di inferiorità. Credo che ci sarebbe da parlarne molto, ma certo che di fronte alle difficoltà dell’esistenza, rapportate al fatto che mio padre, essendo ferroviere, ha fatto una serie di traslochi, da Lecce a Taranto, da Taranto a Palermo, da Palermo a Milano, da Milano a Palermo, da Palermo a Castelvetrano, eccetera. Soprattutto a Milano, dove ho sofferto le pene dell’inferno per ambientarmi, per mettermi a mio agio, per sentirmi all’altezza degli altri che erano presi da antimeridionalismo in un modo che ti fa capire l’antisemitismo e che barbara bestia sia. Allora, in tutta questa situazione, vivendo in ambienti difficili, oppure comunque estranei alle mie origini, Maglie è diventata un paradiso; il recupero dei parenti, anche perché nei primi anni di vita, diciamo fino a 5-6 anni, la vacanza era Maglie, il mare era Maglie.
VERRI: cioè Otranto?
DE JACO: No. Santa Cesarea Terme, dove ci andavo con la zia e altri parenti. Ecco allora che questi qui sono diventati la fisionomia, le caratteristiche, il disegno del paradiso, e quindi quando a Milano non ne potevo proprio più, è a Maglie che volevo andare. É proprio il paese natale, rispetto a quello adottivo, che lo senti di più di quello in cui poi vivi.
*
VERRI: Lo senti, ad esempio, come un qualcosa di più appartenenza. Forse credo sia la nostalgia, un po’ di disperazione, il razionale smarrimento delle terre del saraceno?
DE JACO: Beh! Lì dentro ci sono tutte le mie esperienze, tutte le mie nostalgie, certamente, ed anche il rapporto vero che tu stabilisci con un determinato luogo. Pensa ad esempio che il Salento è terra di pietre, ed io ho avuto un grandissimo rapporto con le pietre. Per esempio, questa strada dove adesso ci troviamo (via Dante Alighieri, n. 144), adesso c’è un palazzo nuovo, adesso sono dieci anni che c’è questo enorme palazzo nuovo. Allora in quel posto c’era un muro di tufi, dietro al quale c’era un giardino. Ebbene, la pioggia e l’umidità disegnavano delle cose su quel muro, oppure anche certi semi dispersi dal vento andavano a far nascere un ciuffo d’erba proprio là sopra su quel muro. Per me tutto ciò era un incanto, era un perdermi dentro questo vento che soffiava e faceva nascere l’erba. Quando, per la prima volta, sono ritornato a Maglie, ho visto che quell’antico muro non c’era più e che al suo posto era sorto questo nuovo palazzo. Per me è stato come un colpo al cuore. Io amerò sempre la cattedrale di Maglie proprio per il fatto che sulla sua alta facciata ci nidificano i semi delle piante trasportati dal vento, e tu vedi dei ciuffi di piante sulla chiesa. Per me è una cosa straordinaria. È sempre un dolce ritorno alla casa della madre.
VERRI: É ancora Salento, se vuoi, e i tuoi due ultimi libri (La casa di tufo, Erreci edizioni, Maglie 1985; Stazioni di posta, Edizioni Il laboratorio, Parabita 1986) li hai pubblicati proprio in questo posto. Addirittura, qualche anno fa, hai preparato un piano per una storia illustrata, a fumetti, del Salento. E poi, ancora, hai ricomprato, se non erro, la casa dei tuoi qui a Maglie. È questo un ritorno in grande stile, o che altro? Che cosa vuol dire per te “salentinità”? e “meridionalità?
DE JACO: Sono due cose diverse. La “meridionalità” è una forma di lotta. Il meridione è la tua patria, per questo la guardi con simpatia, anche se naturalmente non con accettazione come quando la regione era uno stato, e cresceva anche se in modo distorto, perché era uno stato reazionario. Poi ci sono le concezioni ideologiche, lo studio, l’impegno che ti fa diventare meridionalista; è la realtà del Mezzogiorno, con cui ti raffronti, ti cresce dentro. La “salentinità” è un’altra cosa, è la madre, e in fondo non è tanto nella realtà. Per me la “salentinità” rappresenta tanto la madre, per la quale ho dei turbamenti rispetto al rapporto col Salento, nel suo rapporto con il resto della nazione e del mondo, proprio così come li avevo nel rapporto tra mia madre e la società che la circondava. Mia madre era di Maglie, trasferita a Milano, dove soffriva molto ed era offesa da quella realtà, magari anche da gente che non aveva nessuna intenzione di offenderla, perché non si adattava. Allora, quando io vedo, ad esempio, una città come Lecce, una città moderna, adeguata ai ritmi moderni, ai miei occhi Sant’Oronzo e questi adeguamenti moderni non vanno d’accordo, mi pare che la città ci perda di autenticità, perché domani non sarà più niente. E questo vale molto di più per un piccolo centro, per Maglie, per Soleto, per tutti i paesi adorni di cattedrali che abbiamo, eccetera. Solo che questo processo è lento, ed io di ciò sono più contento, perché significa che finché io vivrò non di troppo cambieranno qui le cose, perché quando qualcuno dirà che Aldo De Jaco è morto, le cose che io ho amato non tutte saranno state distrutte.
VERRI: Stavo quasi per chiedertelo: qual è il tuo rapporto con la morte?
DE JACO: Non si può dire che non ci siano rapporti, la prima volta che sono stato malato gravemente, tanto da creare un rapporto obiettivo con la morte, avevo undici anni. Sono stato malato ai polmoni, e quando stavo molto male pare che parlassi a vuoto. Comunque la cosa che ricordo ancora è che vedevo nel muro delle immagini di donna, di uomo che camminavano. So benissimo che cosa erano, erano le illustrazioni dei Promessi sposi [del Manzoni]. La Perpetua, come io la ricordo, non è nella pagina dei Promessi sposi, è come cammina verso di me sul muro. Poi a 17 anni sono stato nuovamente ammalato, ancora peggio, sempre ai polmoni, perché ho avuto un ascesso polmonare e allora la medicina non era come adesso, non c’era mica la penicillina, e la cosa era abbastanza complicata. Sei mesi di casini terribili, e allora la morte mi si è presentata come un’eventualità abbastanza probabile, si è presentata come discorso con Cristo. Fin da quegli anni, per me il problema della morte non è stato una cosa per cui dover morire di paura, piuttosto è stato sempre il problema di morire in pace, cioè di avere i conti pareggiati. So benissimo che questo non è sempre possibile. Allora speravo in un certo senso di morire da grande; sai, questi sono sempre un po’ i sogni di ragazzi ma, oggi, se penso alla morte, la vedo come un fatto casuale, come un accidente della storia di un uomo. C’è una soglia oltre la quale è impossibile andare: prima non eri niente e anche domani non sei niente. Prima eri qualcosa? Ed anche domani lo sarai. Ho l’impressione che la questione del trapasso valga per tutti, per chi crede in Dio e per chi non crede naturalmente. La cosa è sempre più drastica, però, diciamo la verità, si può inventare qualsiasi cosa per rendere più tranquillo il passaggio, cioè per essere tranquilli quando si è vivi e poi quando non lo si è più.
A volte però si vive come dei veri morti. Allora in quel caso quella è la morte da vivi. L’unica cosa utile è lasciarla camminare. Infatti, io ci sono passato vicino, oltre che per malattia, anche durante la guerra. Sono stato ferito durante i bombardamenti. Ho avuto paura, ma la paura non viene quando c’è l’impatto con qualcosa che ti capita vicino, viene quando tu ti immagini che ci sia e hai fatto già l’esperienza. Voglio dire, per esempio, che mentre adesso io ho una fottuta paura delle malattie polmonari, così come quando durante la guerra una bomba mi ferì, ebbi paura perché non sapevo di che si trattava, cioè mi capitò di alzarmi, di muovere le braccia e le gambe per vedere se funzionavano, ecc. Ma ugualmente avevo preso una scheggia che mi stava attraversando il braccio ed era rimasta in esso a metà strada. Un’altra volta ebbi paura, sempre durante un bombardamento, quando vedevo bombe cadere dappertutto. Quella volta la paura mi spinse a farmi camminare sempre di continuo per verificare se ero ancora vivo.
VERRI: De Jaco poeta è stupendo, nel senso che sono io una vittima del tuo Stazioni di posta. È che io preferisco da sempre le poesie del narratore, del romanziere, dello scrittore. Comunque le poesie di uno scrittore a quelle di un poeta. Praga è stupenda, Varna pure è stupenda, e Leningrado, e Berlino, e Madrid, e le Cavalcate bulgare, tutte stupende. Poi c’è Enea, una donna dai piccoli seni, un tuo piccolo capolavoro, che altro non è, almeno io la vedo così, che la poesia. Chi è in realtà questa tua Enea?
DE JACO: Enea è [...... nella registrazione il testo è incomprensibile, tuttavia il redattore conosce quel nome, ma De Jaco, di proposito, aveva alterato la voce per non farsi comprendere, ed io rispetto quell’incomprensione]
VERRI: Ecco! Siamo ora allo scrittore che viaggia, l’ospite ingrato, da Mosca, nel giardino del cattivo amministratore, dalla Cina, dal Nicaragua. Quel paese in Africa di cui mi hai parlato qualche anno fa e che ora intenderesti raggiungere? A parte l’ironia, la disperazione, il dolore, a volte di chi viaggia e scrive, cos’è che veramente insegui?
DE JACO: Il socialismo! E tutta la vita che lo inseguo. Cioè, non tutta la vita: dai 18-20 anni, cioè da quando sono uscito dal tunnel del fascismo, che poi era il tunnel della vita borghese qualunque, piccolo borghese, fino alla miseria, frustrata ed anche resa importante perché c’era la guerra, la paura di morire in ogni momento, una vita di una miseria intellettuale incredibile. Ho letto sempre, per tutta la vita, ad esempio i libri di Antonio Labriola e ne ho ricavato la speranza e la possibilità di un modo di vivere diverso, poi ho scoperto che c’era un paese che stava cercando di costruire il socialismo, e questo era l’Unione Sovietica, che si stava combattendo contro il fascismo e mi sono immesso in questa poesia sociale. La cosa ha avuto un grosso momento di sconforto nel ‘56, da una parte con il XX Congresso del Pcus, che documentava e condannava il fallimento di Stalin, cioè del periodo in cui io credevo in quelle cose, quel periodo in cui tutto sembrava bello e invece ti capita come quando tu alzi una pietra e sotto scopri che ci sono tanti vermi. Per me il XX Congresso fu scoprire cosa fosse stato veramente lo stalinismo. Rivelava un altro volto dello stalinismo, poi magari verrà un altro che dirà che però Stalin era un grand’uomo, ma a me, a questo punto, non è che le cose interessino più di tanto. Io mi sono fermato a quella rivelazione. Nella vita di un uomo più di tanto non ci può essere. E poi, l’Ungheria, che fu il risvolto di massa di quella crisi. Allora io mi posi il problema di che diavolo stavo facendo, chi e perché, e la cosa mi si è gonfiata dentro. Io in biblioteca ho 200 volumi almeno su queste questioni, e me li sono tutti studiati, ricavandone che cosa? Non la cura, ma la diagnosi di quel momento, almeno l’illusione di avere una diagnosi per le mani, ed anche una conoscenza di che cosa era stato lo stalinismo. Solgenitzin non mi ha raccontato nulla di nuovo, perché chiunque volesse, con un po’ di buona volontà, in quegli anni poteva, da fonti russe, statunitensi, italiane, di ogni tipo, scoprire la pietra e vedere che c’era sotto. Però, poi, questo non mi è bastato più, e per prima cosa ho scritto una ricerca, un libro. Era un po’ un libro polemico, con altri libri di altri politici, di politici seri, veri che improvvisamente, arrivati ad una certa età, si scoprivano scrittori. E scrivevano anche bene, ma il problema non è di scrivere bene, di essere uno scrittore; il problema vero è di dire cose adatte. Comunque il primo libro di questa ricerca sul socialismo è stato un libro di un viaggio in Italia, cioè Vocazione agit-prop, che raccontava la mia vita di rivoluzionario “professionale”, come si diceva allora, e come diceva Lenin parlando di sé e degli altri, compreso Stalin.
Era un libro sull’Italia, ma un libro anche sulle esperienze del comunismo in Italia, era un libro critico, autocritico degli anni ‘50, un libro abbastanza amaro, che non mi ha certo rallegrato, ma che io ho scritto comunque con una specie di furore, spinto dalla voglia di dire la verità, ma non la sciocca verità di chi dice che Pietro Secchia aveva un segretario che poi è scappato con i soldi e con i documenti, ma di che cos’era stata la speranza del socialismo per una generazione più giovane, una generazione alla quale toccava di entrava nella società e di dargli una forma, e aveva puntato, appunto, su questa mitologia, su questa utopia del socialismo.
Quindi, una specie di viaggio, e non solo all’interno della testa, ma anche tra i fatti, a dimostrazione di quali erano stati i profondi limiti del nostro essere comunisti negli anni ‘40 e ‘50, negli anni che vanno dalla Resistenza al XX Congresso del Pcus. Da allora è incominciato questo viaggio, alla scoperta del socialismo, perché il socialismo era proprio italiano, cioè la utopia nostra di giovani usciti dal fascismo, e vogliosi di cambiare il mondo. Per la verità c’era anche dell’altro, c’era innanzi tutto l’Unione Sovietica. Per me era chiaro, era la realizzazione del socialismo, quel paese era qualcosa che non corrispondeva ai nostri miti, era qualcosa di cui noi dovevamo sentirci responsabili, perché mica si poteva tanto facilmente fare delle critiche. Allora il problema di vedere se si poteva fare altro, oltre a quello che si è fatto. E allora questo mi ha molto incuriosito, fino al punto che sono stato invitato ad andare in Unione Sovietica e con mia moglie ci sono andato per davvero, passando per la Bulgaria, un piccolo paese (se sapessero che ho detto piccolo!). Un paese, la Bulgaria che sarebbe poi diventato per me molto importante, per certi affari personali, diciamo familiari. Allora il viaggio in Urss, avevo semplicemente deciso di fare un viaggio personale, come tutte le volte che c’è qualcosa che ti incuriosisce, per vedere poi che cosa era successo da quelle parti. In effetti, di fatti significativi ne sono successi molti.
VERRI: E dell’Africa cosa mi dici?
DE JACO: l’Africa? Non l’Africa, ma la Cina e il Nicaragua erano le altre due bandiere del socialismo. La Cina di Mao Tse Tung, anzi per essere precisi, dopo Mao, la prima Cina di Deng Siao Ping; la Cina del tempo del processo ai quattro non so che cosa! Poi il Nicaragua, il misterioso paese tropicale, dove si facevano le grandi opere, e aveva tutti i segni dell’antichità, e tutte le preoccupazioni ed i pericoli del mondo che la circondava, con in più il fatto di essere un uccellino nella bocca del coccodrillo. Un piccolo paese confinante quasi con gli Usa, dai quali dipendeva e dipende in tutto per cui doveva vivere senza bicchieri, senza tante altre cose. Ad esempio, per me, tagliando le bottiglie di coca cola mi avevano ricavato un bicchiere. E questo è niente, un paese senza carta igienica, per cui non era strano sentire delle signore molto serie discutere in salotto su tutte le possibilità che ci sono di risolvere il problema della carta igienica. Poi c’era il problema del pane, del mangiare, del riso, dei fagioli. Il problema di trasformare un piccolo paese ancora alle soglie del suo sempiterno medioevo, in un paese che discute di uguaglianza tra i cittadini e di libertà. Sono sempre delle belle esperienze. Comunque quello che volevo dire è che sono state per me un periodo di ricerca affannosa, di crisi delle mie convinzioni, degli obiettivi ai quali avevo dedicato la mia vita. Dopo di che, dopo il Nicaragua avrei voluto, mi ero posto il problema di andare in un piccolo paese dell’Africa, ma non ce l’ho fatta, perché ogni volta bisogna inventare una storia, e questa volta non ce l’ho fatta, resterà un mistero di questo mio viaggio in Nabipia. Mi pare che si chiami così, che è un piccolo nido di uomini liberi in bocca al lupo. E questo paese sta lì proprio al centro, con un sacco di montagne intorno ed un sacco di gente venuta da tutti e quattro i punti dell’orizzonte alla ricerca della libertà. Che cosa dovevo dire ancora? Ecco, mi è rimasta quest’idea di vedere questo paese qua, che si chiama Nabipia. D’altra parte ho poca fiducia che gli inviati speciali - io ho fatto per tanti anni della mia vita l’inviato - oppure gli scrittori che vanno in questi posti, intorno alle cose, vedono veramente le cose. Io stesso vedo veramente le cose? Comunque gli inviati spesso vedono se stessi che guardano le cose, per cui nella fotografia non c’è spazio che per il signore che piglia appunti, e non per quelli per i quali si pigliano gli appunti. Leggi, ad esempio, il libro di Moravia sui suoi viaggi in Africa.
VERRI: Telegraficamente! Arriverai mai a Samarcanda?
DE JACO: Ci sono già arrivato! Bisogna avere coscienza. Io ho voluto fare lo scrittore, e lo scrittore l’ho fatto. Il fatto che poi non sia uno scrittore di un gran numero di lettori è una cosa che limitatamente è importante, è un’amarezza, ma non è una ragione per dire non ho fatto bene lo scrittore.
VERRI: Sindacato Nazionale Scrittori. Sei a capo di questo strano sindacato, perché qualcuno lo vedrebbe più come un’associazione, che come un sindacato vero e proprio. Sei, dicevo, dopo Bernari, Bigiaretti, segretario di questo sindacato da molto tempo. So che lo vivi con tutta serietà d’intenti, a volte con rabbia, con disperazione, a volte con la giusta ironia. So che ti batti da sempre per il rispetto del diritto d’autore, per un aggancio reale con la Filis-Cgil, il prestigio internazionale che, comunque, è già una realtà, c’è un congresso nazionale alle porte, come ci arrivi? Come ci arriviamo? È vero che pensi di presentarti dimissionario?
DE JACO: È mio dovere presentarmi dimissionario, non sono mica un dittatore del Sindacato scrittori. Io vado al congresso, faccio la mia relazione e mi dimetto, probabilmente sarò rieletto nel Consiglio generale, ma lì si farà la discussione. Io credo sinceramente, posso anche metterlo per iscritto, che sarebbe tempo di cambiare. Io faccio il segretario del Sindacato scrittori da più tempo di Bigiaretti, ma la differenza tra me e lui è che Bigiaretti è incappato in un momento di voglia democratica di cambiare le cose, da parte di tutti ed anche dagli scrittori. Io no!
A questo punto non ci sono arrivato. Do la mia parola d’onore che desidererei esserci, anche a prezzo che mi pigliassero a mazzate, e dicessero: via, facciamo di bel nuovo le cose. Io di una cosa sono convinto, cioè che ci vuole un sindacato degli scrittori per una ragione molto semplice, che forse è semplice per Marx, ma per un signore normale che cammina per strada e che scrive poesie non è semplice. Gli scrittori producono una merce, insieme ad altri naturalmente, ma un libro è una merce che viene a costare dei soldi, e allora questo comporta la difesa degli interessi delle varie persone che concorrono a pubblicare il libro. Non vedo perché l’operaio che compone un sindacato va bene, mentre un mio racconto deve avere un sindacato ed io che racconto o scritto non ne ho bisogno. Ma perché? Forse io ho un potere individuale maggiore di lui? Non è vero! Di potere individuale non ne ho nessuno. Perché il mio potere è il fatto che l’editore mi vuole bene e mi regala i soldi, il che non avviene con nessuno, neanche con Moravia. Moravia guadagna un sacco di soldi, poveretto forse non li guadagna neanche tanti soldi, ogni tanto si scopre che è in miseria, perché ha un potere contrattuale rispetto agli editori, rispetto al suo editore. In fondo Moravia potrebbe essere l’editore di se stesso, potrebbe dire a un Bompiani «levatevi di lì che voglio comandare io». Non tutti possono essere così, ma la collettività deve essere così, cioè gli scrittori non hanno alcun mezzo, che non sia il mezzo che hanno anche i metallurgici, di influire sugli editori. Non solo, ma siccome gli editori sono industriali di tipo particolare, gli scrittori avrebbero la possibilità, e molto spesso lo fanno, quando hanno un potere contrattuale individuale, di intervenire nel processo produttivo, di decidere quali libri pubblicare, di decidere le correnti, i modi, il tipo di cultura che l’editore vuole produrre, e quindi, allora a questo punto, se uno, due dieci scrittori italiani sono in queste condizioni e manco cinque le utilizzano, allora ci vuole qualcosa che generalmente queste possibilità e capacità ce l’ha. Non vedo che ci sia di strano; il sindacalismo è una cosa che è stata scoperta ben cento anni fa. Perciò tocca anche a noi! In pratica c’è o non c’è qualcosa da chiedere? Ma certo! Siamo regolati ancora, in pratica, da leggi fasciste, che non solo politicamente erano al di fuori della democrazia che viviamo oggi, ma anche tecnicamente erano di un mondo in cui le dimensioni erano poche, mentre adesso sono moltissime. Non c’era la televisione, la radio era una piccola cosa, non c’erano i satelliti che girano per aria, per cui oggi come oggi, la legge sul diritto d’autore, che è poi la legge n. 633 firmata dal cavaliere del lavoro Benito Mussolini, è completamente inadeguata, e noi praticamente ci agitiamo tanto, ma l’obiettivo per il quale lavoriamo, il primo, è estremamente semplice: cambiare questa legge. E questa è una cosa che riguarda gli scrittori, ma anche i pittori, gli artisti tutti, perché in quella legge c’è tutto, e c’è tutta l’ingiustizia con cui ogni autore oggi lavora per quello che fa diventare oggetto la sua opera. Ebbene, si tratta semplicemente di chiedere a quello che ci guadagna o che ci dovrebbe guadagnare, perché ti assicuro che tu non ci guadagni, ci guadagni troppo poco, che una fetta più grossa vada all’autore. Non c’è dubbio che scrivere sia un mestiere, non lo può fare chiunque. Si comincia con l’apprendistato e si continua professionalmente. Tuttavia, mentre gli editori puntano su una gran pletora di gente che s’arrabatta, per cui ogni tanto esce uno che fa qualcosa, noi pensiamo invece che questo lavoro sia il più professionale possibile. Non lo sarà mai come un mestiere d’altro tipo. Disgraziatamente pare che gli scrittori queste cose non le vogliono proprio capire, perché preferiscono la situazione tipo “mecenate”, e infatti il governo Craxi, per esempio, gliel’ha data con la legge per distribuire 100 milioni all’anno ai migliori, ai più simpatici, a quelli che ne hanno più bisogno. Ma non è di questo che c’è bisogno. C’è bisogno di una nuova legge sul diritto d’autore e che il sistema pensionistico riguardi anche gli scrittori. Non dico che sia facile, perché c’è il problema di definire la figura dello scrittore e le prove che uno è scrittore e non uno che si arrabatta così, tanto per fare. Tuttavia affrontiamo questi problemi che sono i veri problemi, e superiamo una situazione che ereditiamo dal fascismo, durante il quale questo settore della società fu un settore abbandonato a se stesso e che noi oggi onoriamo molto con chiacchiere, lasciandolo alla politica e alla filosofia del lupo contro lupo.
VERRI: Parliamo, anche se telegraficamente ne hai accennato prima, un attimo di partito comunista. A Napoli aggiustavi i palchi ad Amendola e dopo sei stato funzionario, poi man mano entusiasmi, delusioni, anche qui smarrimenti, amori ritrovati, ecc. Quali i tuoi rapporti attuali con il Pci?
DE JACO: Ogni principio d’anno, mi faccio la tessera. Onestamente devo dire che a volte ci metto qualche mese, ma per una questione pratica di difficoltà di andare in sezione. Questa è lontana da dove abito. Comunque, pago quelle 50.000 lire [oggi euro 25] e mi prendo la tessera. Dopo di che leggo ogni giorno «l’Unità», almeno i titoli, e commento variamente l’attività che fa il partito. Riconosco, con un’ottica un po’ antica, perché il Pci per il quale io ho vissuto, ho combattuto, adesso mi sembra non esserci più.
Sai, sono stato anche un dirigente del Pci nel secondo dopoguerra. Poi contro questo partito, negli anni ‘50 mi sono ribellato, però per me resta sempre il partito che conosco meglio. Per cui, il partito di oggi è un partito che ha alle spalle il ‘68, magari il ‘77, ma non certo il ‘45, e questo partito di oggi, a parte il fatto che ugualmente gli sono fedele, lo conosco meno. Comunque, sottoscrivo quando devo sottoscrivere, e poi, in fondo, non mi chiede altro. Però, se mi chiedesse qualcosa di più, lo farei perché non c’è niente di meglio di quel partito.
VERRI: La tua prima narrazione, mi pare sia stata Racconto del sud. Fu quasi semiclandestina. Il tuo primo vero libro fu invece Le domeniche di Napoli (1954). Questo libro lo volle Vittorini nei “Gettoni”. Poi sono seguiti: Una settimana eccezionale, con Mondadori nel 1959, Viaggio di ritorno, ancora con Einaudi nel 1966. Poi sei scomparso dalla grande editoria. Perché? Qualche tuo passo falso?, o qualcosa di non dipendente dalla tua volontà?
DE JACO: Certo, dipendente dalla mia volontà. Qualche passo falso c’è stato, ma io i passi falsi li ho fatti anche da giovane. Ad esempio, è indubbiamente un passo falso il fatto che, affettuosamente legato a Vittorini, disponibile a scrivere un po’ come lui, sia a esserne allievo, però rifiutai assolutamente che lui mettesse le mani nei miei testi. E questa cosa con Vittorini non può mica durare. In una sua lettera a Calvino, mi tratta da nazista, perché ero di un rigore estremo, anche perché lui se ne era andato dal partito allora e io avevo una paura fottuta di compromettermi con lui. In ogni caso non mi pento certo di aver difeso i miei testi. Vittorini ha macellato parecchi scrittori, ma a me no. Certo, è andato avanti, perché in fondo poi è stato lui che mi ha portato da Mondadori, ma ha dovuto farlo alle mie condizioni, cioè al fatto che i miei testi erano quelli e basta. Non mi pento di questo. Però sono uscito rapidamente ed eroicamente dal grande giro. Diciamo, che come me se n’è uscito anche il neorealismo. Io ho chiuso così i miei rapporti con le grandi case editrici, quando c’è stata la prevalenza del Gruppo ‘63. Anche di questo non mi pento, perché sai quante confessioni e autocritiche ci sono state, e passaggi. Io in fondo non faccio parte di nessuna corrente, perché ero troppo giovane quando c’era il neorealismo, e poi ero vittoriniano, che non è la stessa cosa del neorealismo. E poi ho continuato così, essendo forse un po’ meno vittoriniano ed un po’ più dejachiano, ma non certo legato ad altre correnti. Nel nostro paese questo fatto di non essere legato a correnti di pensiero è una cosa che nuoce essenzialmente. E io ho continuato così. Dopo tutto non mi pento di questo, è una condizione del mio modo di vivere e quindi di lavorare.
VERRI: Lo scrittore di storia, non lo storico, dal ‘69 al ‘74, cinque grossi volumi presso gli Editori Riuniti nella collana “Antistoria dell’Italia unita”; poi altri ancora, tanti altri. Come ti muovi in questo settore? Quanto ci entra il narratore.
DE JACO: Ci entra abbastanza. La verità è questa: non è che io sia uno scrittore di storia, la verità è che io ho avuto uno scontro con lo storico. Ad un certo punto, ho dovuto fare i conti con lo storico. Ci entra sempre il ‘56, in fondo nel ‘56 che cosa è successo? Che io abbastanza giovane sono stato sradicato dalla storia, dalle vicende di quel periodo, dai miei maestri e da quelli che ammiravo, cioè in politica, Lenin e tutto il filone marxista, che di fronte al rapporto di Krusciov diventava qualcosa di assolutamente equivoco. Bisognava ricominciare daccapo. Io che cosa avevo? Camminavo su due gambe, il socialismo, cioè il filone leniniano, e il meridionalismo, cioè la lotta per la conquista del Mezzogiorno. Il ‘56 e gli anni successivi con le grandi migrazioni al nord, e le idee che allora si avevano; praticamente si è trattato del crollo dell’ideologia del dopoguerra, tuttavia, nonostante questo crollo, molto delle mie impalcature culturali sono rimaste in piedi, per cui ho fatto una cosa che mi sembra abbastanza seria: mi sono messo a studiare, ho letto, prima di socialismo; la mia prima moglie sapeva quanti soldi ho speso per acquistare i libri da leggere. Leggevo di tutto, dalle memorie dei politici della sinistra, oppure dei filosofi della sinistra, per arrivare a capire che cosa era successo. E l’altra cosa da capire era la questione meridionale, quindi la storia d’Italia, la storia del Mezzogiorno, dalla fine del ‘700 in poi. Così, ad un certo punto, mi sono trovato a fare libri di storia, secondo una tecnica che uno storico non accetterebbe mai, perché riduce a nulla, o quasi, la propria funzione. Questi famosi miei cinque libri sono libri di citazioni, pure e semplici, però dire questo è falsificarli, perché sono tutti testi altrui, titolati da me e tagliati da me e messi in quello che normalmente si chiama in pittura un “ collage”. Naturalmente sappiamo tutti che un collage non è una somma di quadri altrui, ma è un quadro di chi lo fa, e quindi io non posso dare la responsabilità ad altri del mio libro sulla questione meridionale. Pur non essendoci neanche una parola di mio, a parte l’introduzione, è un libro mio, non c’è dubbio, e che ha avuto abbastanza successo, nel senso che ha avviato gli studi sulla questione meridionale. Per me era la seconda gamba, cioè la realtà da vedere e dalla quale partire per arrivare al socialismo. In fondo quegli anni ‘60 mi hanno riempito, ho lavorato molto a queste cose, non ho avuto il tempo di rendermi conto che invecchiavo e che bisognava prima viverle le storie per poi poterle raccontare.
Ho ripreso a raccontarle con l’editore Marsilio, che dopotutto non è un editore da buttare via, ma certamente senza più accedere agli editori, ai quali ho avuto accesso grazie alla porta che mi fu aperta da Calvino e Vittorini. Successivamente grazie all’operazione con gli Editori Riuniti, ho ricominciato a narrare, ma perché mi era ritornata la voglia di narrare delle cose, che erano poi il mio mondo privato.
VERRI: Due anni fa, d’estate, ce ne andavamo in giro per il Salento. Non facevi altro che parlarmi di Messapi o della non esistenza di Sant’Oronzo. A parte le 6-7 puntate della storia del Salento a fumetti, che hai già scritto, mi pare, hai in mente qualcos`altro che ci riguardi?
DE JACO: No. Onestamente in questo periodo non ho niente che ci riguardi. Questo non significa niente, però. Io ho passato un periodo in cui mi preparavo a scrivere la storia a fumetti del Salento e, naturalmente, per un momento era impegnato a badare a tutte queste cose, ecc. Mi è rimasto in cuore qualche elemento, ad esempio, vorrei saperne di più sui Messapi, mi entusiasma la loro architettura, le mura ed anche la loro storia, perché hanno avuto una storia, hanno difeso il loro paese bene, poi un altro personaggio che mi interessa molto è il re Totila, barbaro, il quale voleva fare una riforma agraria, ed era un tipo molto interessante, aveva capito un sacco di cose. Quel lavoro lo avevo portato abbastanza avanti, ma ormai è superato per il fatto che non si trovarono in quel momento le capacità finanziarie per fare l’impresa. Se oggi arrivasse [quel finanziamento] non escludo che mi rimetterei a studiare, perché tra l’altro studiare mi piace, ma studiare alla mia età significa trovare qualcosa da studiare di particolare, di diverso, non è studiare per preparare degli esami. Non mi propongo di laurearmi in Lettere dopo non essermi lauretao in Architettura. In questo momento non ho le idee molto chiare su quello che farò. Ho, lo confesso a mezza voce, alcuni libri che potrei pubblicare, due romanzi e un libro di racconti e spero di pubblicare qualcosa di questi libri nel prossimo periodo. Dovrei fare per un editore di Roma una vita di Rocco Donatelli, che è un brigante meridionale, capo dei briganti, ma non credo che la farò mai, non perché non mi piaccia Donatelli, ma perché mi costerebbe troppa fatica. Non sono il tipo che si inventa le cose, e credo che sarei costretto a consultare parecchi libri di storia. Sto scrivendo attualmente un racconto, per di più avrei la possibilità di fare un altro libro di poesie, ma questo non lo faccio per altri motivi, perché un libro di poesia sembra niente, ma è molto impegnativo rispetto alla propria biografia. Così stanno le cose. Ora che mi hai fatto la domanda mi obblighi a rispondere, ma non adesso. Per conto mio, nei prossimi giorni, mi obbligherò a fare un piano preciso, perché data l’età bisogna fare il piano per l’ultima corsa, diciamo.
VERRI: Tre o quattro anni fa a Roma in via Giulia la tua gatta non faceva altro che farmi dispetti, ad esempio ogni notte faceva cacca all’ingresso della mia camera, tu invece con lei ti ci strusciavi, quasi. Ho scoperto poi che ami il gallo, di Picasso e no, i cavalli bulgari, altri simboli, altri feticci. Tutto ciò, tutti questi simboli mediano qualcosa sul De Jaco scrittore che io non riesco a vedere?
DE JACO: Certamente. Per esempio c’è un libro che è dedicato ai gatti, che però non è ancora uscito. Temo oramai che se non prendo un’altra via, non uscirà. È un lunghissimo racconto che si intitola La casa dei gatti e poi c’è un secondo racconto sulla morte di Tobia, che è la gatta che tu dici, e che è morta straziantemente di cancro. È un libro di racconti, dedicato appunto ai gatti di casa mia, che un giorno sono stati ben sei. E a dire il vero erano i gatti di mia moglie che, per esserne responsabile, era anche il boia trucidatore di quante le giovani vite di gatti che nascevano, che erano a popolazioni in questa casa. Non so perché lo facesse con precisione, forse c’entrava anche una polemica con me, comunque io mi sono assunto quei gatti come miei, anche se devo riconoscere che in famiglia erano più importanti i gatti di mia moglie, e ce n’è ancora uno. Devi sapere che anche le mie mogli si contano a popolazioni. Io ho avuto una moglie che mi è morta tra le braccia, e poi una con la quale ho vissuto per una decina d’anni e poi mi ha dato il ben servito ed io un po’, indubbiamente, triste me ne sono andato. Adesso ne ho una terza che ha tutti i dati positivi della promessa, sicuramente da mantenere, anche se naturalmente né io né lei siamo proprio giovani. Parlo ovviamente della bulgara.
VERRI: In che direzione corre oggi la narrativa dei nuovi scrittori? Mi pare che non mettano molta fatica a scrivere del loro inferno, anche dell’inferno che li circonda, magari sperano domani di sostituire Mario Soldati e Piero Chiara e Bevilacqua in tutti i grossi premi nazionali, o nella tristezza e nell’impotenza dei grossi premi letterari. Li conosci questi giovani scrittori? Hanno buon respiro, o sono frutto di un bluff?
*
DE JACO: Non di un bluff, ma di un affare. Vedi, la letteratura è disperazione e angoscia per chi appare in un certo modo, ma per altri può essere anche un affare. Tu pubblichi un libro con Bompiani, un libro che è una stronzata, 10.000 copie sicuramente le vendi. Fai i conti e vedi che qualche milione in tasca ti entra. Allora qui non dico che capiti a nessuno questa cosa, però un progetto di questo tipo si può fare, specialmente se uno che ha potere in questo campo ti avalla e dice che sei bravo. Comunque, vale la pena, l’editore rischia e a questo punto non perde né lui, né tu, cioè non gli farai guadagnare molti soldi, ma gli darai qualche altra possibilità. Sfugge a tutto questo apparato, sfugge il tuo contributo, come devo dire, non è che non trovi le parole, ma è che c’è stato lanciato un anatema contro certe parole, per esempio la parola “messaggio”. Però praticamente, per intenderci, questo significa dire che diavolo vuoi? Perché diavolo fai lo scrittore? Non puoi dire che lo fai per guadagnare soldi, puoi dire che lo fai per dire qualcosa ai tuoi lettori. Questo ti porta a non avere mai prestigio. Non riesco a capire che cosa vogliano dire, perché hanno alcune o molte capacità, non innovano niente, ma riportano agli strati più economicamente comprensibili del piano di fare lo scrittore, che Soldati sia un’ottima persona non c’è dubbio, e che sia uno che scrive dei buoni libri anche su questo non c’è dubbio, però scrivere come Soldati significa non rischiare, non battersi, non parlare turco, significa parlare il linguaggio della stanchezza di una giornata, del dopo le seccature, ecc., magari seduti davanti alla Tv.
VERRI: Qualche nome? Giovani scrittori?
DE JACO: Tu mi vuoi rovinare! Io, guarda, ho fatto molte cose, ma una mi sono sempre rifiutato di fare ed è il critico e non incomincerò adesso.
VERRI: Pare che questa ti tocca come domanda, perché navighi da un bel po’ in questo mare. Pare che i mass media comincino a perdere terreno, c’è un ritorno del libro, lo si dice da molte parti, ma il libro morirà mai?
DE JACO: No! Il libro non morirà mai, però bisogna intendersi. Vi è un grosso processo di mistificazione, per cui tu dici il libro, ma bisogna intendersi su che diavolo è questo libro. Oggi, in Italia si vendono 22.000 titoli di libri, 22.000 libri diversi escono ogni anno, credo che 8-10.000 sono le ristampe, e comunque c’è un grosso numero di libri nuovi che escono. Nuovi non significa buoni, non significa nemmeno originali, ma una grossa fetta di libri nuovi veramente c’è, e però la maggioranza di questi libri fanno parte di un progetto editoriale tendente a guadagnare qualcosa. Io ho una concezione della letteratura che non corrisponde a questa ideologia; corrisponde ad altre. È quella del messaggio, è quella del dire qualcosa. Per me non ha la minima importanza, cioè non è progettato il successo editoriale, ma è progettato il messaggio da me al lettore di qualcosa alla quale io credo e alla quale quell’altro crede. Sono più pericolosi i libri in cui tu ci metti tutta la tua anima e c’è la speranza che qualcosa passi. Però non sono libri di successo questi, perché il successo del libro oggi è dato, se un successo c’è, perché queste cose si scoprono subito dopo Natale quando c’è uno sforzo di trasformare il libro da strano oggetto in cui si girano le pagine per leggerlo a oggetto di altre questioni. Io ricevo ogni anno alcuni libri bellissimi, quello su Raffaello per esempio, che non ho ancora aperto; c’è un libro delizioso, anche per ragioni personali, molto interessante, che è un libro su i barbari in Italia. E quando mi metterò a leggere questo libro? Ci vorrà, che so?, che mi rompa un piede per stare fermo un mese e allora me lo leggerò. Allora questi sono libri oggetto, libri che possono essere ottimi, ma comunque vendono, infatti, costano moltissimo. Talvolta non sono affatto in vendita, tendono ad essere un oggetto di prestigio della casa. I miei libri, i libri degli amici miei, sono tutt’altra cosa; sono tentativi di trasmettere, per quanto riguarda me, un messaggio, una discussione, a spingere verso una discussione, altri sono libri ancora più complessi. Comunque sempre di questo bisogna dar conto, di dare un contributo alla conoscenza che l’uomo ha della verità delle cose.
VERRI: Ho aperto una domanda banale, concludo con un’altra del genere. C’è una domanda che non ti ho fatto e che avresti voluto che io ti facessi?
DE JACO: Io non voglio che mi facessi nessuna domanda, quindi non vedo come ci possa essere una domanda che volevo che tu mi facessi e che non mi hai fatto. Sono molto contento che non mi hai chiesto chi è il mio editore, perché sono, come quando avevo 20 anni, alla ricerca di un editore. Sono contento che non mi hai chiesto i premi che ho preso perché, in effetti, ne ho presi alcuni, ma i premi non hanno più il significato che avevano una volta e quindi uno non è che si guarda alle spalle pensando a qualche buon premio ma, al massimo, spende quel milione per comprarsi i mobili di casa. In effetti, tu le domande le hai fatte, avrei voluto che ci fosse qualche altra domanda, però poi ti rispondeva ad una biografia vincente, ed io non ce l’ho. Ad esempio, una domanda come questa: quante centinaia di migliaia di copie hai venduto del tuo ultimo romanzo? Questa sarebbe stata una bella domanda, perché mi avrebbe molto imbarazzato, in quanto a contare i diritti d’autore che ricevo, i miei lettori sono pochi ma buoni. Ma tu, gentilmente, non mi hai chiesto niente.
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