mercoledì 16 ottobre 2013

(In) a Sud del Sud dei Santi

ANTONIO VERRI
di Antonio Errico

Riprendo i libri di Antonio Verri come se stessi entrando in una casa che non frequento più da tempo: con la stessa malinconica memoria delle atmosfere, con la percezione dolceamara dei particolari, con la stessa sensazione di rivedere creature care che l’hanno abbandonata per andarsene in luoghi che non hanno pareti.
Non li leggevo più da quando ho scritto delle pagine su di lui in Angeli regolari e in Salento con scritture, pubblicati da Guitar nel 2002 e nel 2005.
Non li ho letti più forse perché  scrivendone ho fatto confusione tra l’esistenza e la scrittura, non per un errore di metodo ma perché nella scrittura di Verri quella confusione è connaturata. Chi volesse confrontarsi con l’opera tentando di mettere ordine in quella confusione, di separare le due sfere, potrebbe pure farlo, certamente, ma a condizione di smembrare un corpo, di lacerarlo, fino al punto da non riconoscerlo e correndo  dunque il rischio di sbagliare a identificarlo.
Leggevo i suoi libri e lo rivedevo, e rivederlo mi provocava nostalgia, e non volevo avere  nostalgia. Così non li ho letti più.
Adesso li riprendo dagli scaffali. Stanno accanto a quelli di Salvatore Toma. E’ giusto che i libri di chi si è fatto compagnia si tengano compagnia. Li rimetterò accanto.
Appena prendo il primo, mi ritrovo nella stessa confusione: le vite e le parole che fanno nodi difficili da sciogliere.
Il pane sotto la neve uscì nell’ottobre dell’Ottantatrè, secondo volume dei “Quaderni”  del Pensionante de’Saraceni. Il primo era stato Forse ci siamo di Salvatore Toma. 
Ma che cosa fu Pensionante de’ Saraceni bisogna dirlo. Uscì che  era il febbraio dell’Ottantadue. Noi lo si vendeva a cento lire – ma anche di meno, ma anche di più- per le strade di Lecce,  nelle stanze chiuse dell’università, nei vicoli stretti, tra i tavoli delle osterie. Furono pochi gli entusiasmi, in verità, per quella rivista di colore giallo ( talvolta era un giallo rossiccio, un colore di foglia marcia, qualche altra volta bianco) che avrebbe cambiato non solo il modo di fare militanza ( come si diceva) letteraria ma anche il modo di pensare ad un pubblico per la poesia, possibilmente diverso, più vasto, nuovo.
Qui: in Salento. Provincia della provincia. Finibusterrae.
“Pensionante” era figlio di un padre che visse poco ma che fu importante: “Caffè Greco”; e di una madre dall’esistenza antica, che ancora vive, che vivrà per molto: è un’idea, un profilo di nuvola bianca, oppure una zolla di terra che impasta Mediterraneo ed Europa, che coniuga la grotta di Badisco con il volo di Fra’ Giuseppe Desa da Copertino.
Chi c’era.
All’inizio la redazione di “Pensionante” fu nella soffitta di Angelo Fabbiano Via Sicilia, 17. Lecce.
( Da anni non vedo e non sento Angelo Fabbiano. L’ultima volta camminava con le mani e a gambe in aria per far smettere di piagnucolare una bambina).
Poi si trasferì nella casa di Piero Manni, sul viale Leopardi.
Dunque: chi c’era. Un indice dei nomi sarebbe troppo lungo; poi rischierei di dimenticare qualcuno. Io non voglio dimenticare nessuno. Niente nomi. Ma erano in tanti; eravamo in tanti. Si correva lungo una strada indicata da quel vecchio padre che  mandò una lettera in forma di poesia  intitolata “Ai neoteroi del Pensionante”: Vittore Fiore.
Diceva Vittore: “Entrate nella scena/ con una nuova poesia, velame/ che non ci rinchiuda nel giro/ che più non restituisce contadini,/ gerani, donne di tabacco, astrologiche specchie, i suoni/ nelle grotte e quelle paure/ cariche di profezie, prima/ che una prigione di clacson, di cemento,/ frantumi l’orecchino incandescente,/ e impazziscano i profeti,i rancorosi,/ proconsoli, i giustizieri,/ e la scrittura sia un corpo sfatto”.
“ Pensionante” ospitava firme con un futuro alle spalle e voci con un passato tutto da costruire, verso dopo verso, parola su parola.
Tutti quelli che c’erano ci credevano; tutti quelli che c’erano sono rimasti. Perché quel che conta nel mestiere della scrittura è credere e resistere.Quel che conta è spendersi, giorno per giorno. Anche disperdersi conta. Anche dissiparsi. Come il vecchio clown che resiste alle trasformazioni del circo e del pubblico del circo, tenendosi dentro il sogno segreto d’incantare i bambini. Molti giochi e giocolieri passano negli anni; lui resiste con il suo numero che ogni sera ripete ai bambini nuovi e ai vecchi bambini.
L’ultimo numero di “Pensionante” col formato del foglio esce nell’estate dell’Ottantaquattro.
Chiude per stanchezza.
Poi. Non era più estate ma faceva caldo, forse perché era caldo l’autunno, forse per il vino, l’anno era lo stesso ottantaquattro quando nella casa di Maglie di Aldo De Jaco il foglio di “ Pensionante” si trasformò in rivista pensata da una redazione rovesciata sul divano.
Esce nel gennaio dell’ottantacinque. Centosessantasette pagine. Diecimila lire. In copertina Pasolini a Calimera.
A Rina Durante ( a quella ragazzina che si svegliava di soprassalto con l’incubo che gli altri intorno a lei stessero scrivendo il capolavoro, e che poi il capolavoro lo scrisse davvero, lo pensò e lo scrisse in una corsia d’ospedale mentre sua madre moriva), a Rina Durante  che gli chiede di riflettere su quella rivista da due chili, Antonio Verri risponde che non ha programmi, non ha proponimenti per questo nuovo “Pensionante”. Scrive che ha solo vuoti, solo amarezze, sbandamenti, il candore di sempre, che non riesce a vivere in modo regolare, con le Pasque e i Natali al posto giusto. Dice che se proprio deve riflettere, allora capisce che per essere buon direttore di una rivista di letteratura, qui da noi, bisogna essere amico dei Turchi: di quei Turchi che vennero per darci la possibilità di trasformare Otranto in un mito.
Di “ Pensionante” rivista escono quattro numeri: uno straordinario su Vittorio Pagano. L’ultimo.
Nel dicembre dell’ottantasei, Verri esce con un numero di “Pensionante” come “Corriere internazionale”.
Da Maglie Totò Toma gli scrive: “ Caro Verri, Belloooo! il tuo Corriere (levriere) internazionale! (…) Le traduzioni da lingue straniere sono così chiare … che io l’ho letto tutto  in sei minuti e 40 secondi!”.
Con questo numero l’esperienza di “ Pensionante” si conclude. Ma Antonio Verri aveva creato intorno alla rivista un Centro culturale con lo stesso nome, una rete incredibile di rapporti nazionali ed internazionali, aveva gettato solide basi per il dopopensionante.
Con il Centro Culturale e con le edizioni del Dopopensionante uscirono i “Quaderni”, “Diaepositive. Scritture per gli schermi”, “Mail Fiction”; “Abitudini. Cartelle d’autore”, “Spagine”, “Compact Type”, “I Mascheroni” (con le edizioni Erreci) Ballyoo-letterature (una simulazione del Declaro, del libro impossibile, infinito, sconfinato) raccolto, impaginato sopra un grande tavolo ad Astragali.
Chi c’era. (Niente nomi. Potrei dimenticare qualcuno. Sto procedendo a memoria. Rinuncio a mettere mani nel groviglio di carte accumulate. Mi vengono molte parentesi.)
Da “Pensionante” nacquero altri giornali: “On Board”, “Titivillus”, e quell’avventura favolosa che fu “Quotidiano dei Poeti”:
Uscì per dodici giorni, distribuito nelle città italiane più importanti. Non sembrava vero allora; non sembra vero ora.
Dodici giorni di fila: dal 17 al 30 di maggio del novantuno.
Ventun’ anni fa. Nel secolo scorso; appena ieri.
Chi c’era.
Non c’era più Salvatore Toma. C’era Antonio Verri.

Nel Pane sotto la neve c’è l’idea della scrittura e  il lievito di tutto quello che Verri scriverà dopo.
C’è l’idea che ogni parola è adorabile: anche quella sciocca, anche quella usata, abusata, consunta.   C’è l’idea che tutto sia un miracolo. C’è il mito della  madre, quello di Otranto e dei  turchi, le ragazze mulacchione, la terra, la rabbia, il candore, le maschere, le figure allucinate.
C’è Stefan, un alter ego che proviene dall’universo joyciano.
C’è la combinazione di versi e di prosa, quella prosa che impasta Joyce con Vincenzo Consolo e Stefano D’Arrigo.
C’è quella ideologia della rivolta operata attraverso la poesia. Fate fogli di poesia, dice, spediteli ai politici, gabellieri d’allegria, a chi ha perso l’aria di studente spaesato, a chi ha svenduto lo stupore di un tempo, le ribalte del non previsto, ai sindacalisti, ai capitani d’industria, ai capitani di qualcosa.
Insultate il damerino, dice, l’accademico borioso, osteggiate i burocrati, i falsi meridionalisti.
Non alzatevi in piedi per nessuno, poeti.
Così dice. 
Poi ritorna alla poesia di una dolcezza sfarinata, nell’abisso dell’intimità, nel buio impenetrabile e irrimediabile in cui nascono le parole. Poi ritorna nell’ambito della relazione con se stesso e  con le creature dell’origine, e con se stesso e con quelle creature riflette sulla natura e sul senso dell’essere poeta, del fare poesia.
Allora dice: “ho potuto darti poco, madre/popo poco/ un sorriso di rivalsa/le risposte il tacicuore:/  mi chiedi a che serve poesia/ (parole stupide, madre, ma sonore/ di quelle che dilizian dint’oricla:/ poi tutto si consuma/poi tutto t’ossessiona,/ il pallore degli anni di livore/ il tempo che non basta…)/
Mi chiedi a che serve poesia/ non ti preoccupare, aggiusto tutto/ avrò senso/dormirai la notte,/da oggi, vedrai, calibro la rabbia/ le verdi stonature/ i guerci miei violini, i miei progetti:/ lascerò le alchimie, se vuoi/ i segni i sogni zoppi/ i percorsi di miglio profumato:/credimi, da oggi tesso i colpi/ che do al vuoto/ da oggi cambio/ da oggi non m’importerà/ del tremore del treno che mi assale/ di questa ossessione che è la vita/ avrò più tempo, starò tranquillo/ riprendo a stare contento a casa tua/ ( mi lavo fuori, madre/ dal grosso rubinetto sulla scala/ lo specchio è ancora là…/ è buona barba adesso/ il pelo chiaro del ragazzo/ che sospettava la scrittura il racconto/ il goffo, l’assoluto della vita/ il morso senza dolore dell’incanto)”.
Ho sempre pensato che il fondo e il fondiglio, la ragione e il sentimento, l’incipit e l’explicit   della poesia di Antonio Verri, si trovassero proprio in questi versi, usciti su “L’immaginazione” nel gennaio dell’Ottantaquattro.


Dopo Il pane sotto la neve, Verri pubblica Il fabbricante di armonia, La betissa, I trofei della città di Guisnes. Tutti testi di prosa, se si deve rispondere alla convenzione dei generi. Anche Bucherer l’orologiaio, uscito postumo a cura di Aldo Bello e di chi scrive queste righe, è un testo in prosa.
Ma è una prosa che rifiuta ogni convenzione di trama, d’intreccio, di stile, di forma, di linguaggio, per caricarsi di un ardire e di un ardore, e di un furore talvolta, che rispondono all’ansia di ricerca del Declaro, del libro dei libri, assoluto, metafisico. Impossibile. Ecco: la scrittura del libro impossibile, per Verri è l’unica scrittura possibile mentre all’orizzonte si delinea il panorama del terzo millennio.
La poesia ricompare nell’ultimo libro pubblicato in vita, Il naviglio innocente: testo composito che alterna i versi e la prosa, tramato da metalinguaggio, metapoesia.
C’è una nave. Probabilmente una proiezione de Le bateau ivre rimbaudiano. Oggetto, forma poetica, che naviga nel vuoto, nella dissolvenza dei generi, senza convenzioni.
C’è una nave. Forma inutile, vuota, muta. E’ la continua voce degli amici morti.
C’è quello che c’è sempre stato in ogni pensiero, in ogni pagina. C’è Stefan, ancora. La madre, ancora. La felicità e l’angoscia della poesia. Ancora.
“O scialba scialba poesia, guasto poema/ versi unici e inutili, non barbari/ mia madre non dormiva, mi chiedeva/io continuavo carico di neve: / è dolcissimo tornare, madre/ sai quanti ori venduti e in quanti posti/ e ragazze ondeggianti  e stazioni e grandi gruppi/ e quanti lunghi fiumi…/ Figlio  ricominci?”.
C’è una nave. Corpo sonoro, mnemonico, numerico. Forma vandalica, superflua, innocua, “ travolta da un carico di confettate parole”. Essa è il racconto, il corpo, l’evento teatrale, “ può pulsare e narrare o sdegnarsi/ oppure crescere tonda come un tempo/ le grandi comete/ oppure greve e muta procedere/ minuscola e vile…”.
C’è un viaggio in questo libro.

C’è sempre un viaggio in ogni libro di Verri. Movimenti in verticale, di discesa, di sprofondamento. Scandaglio del senso: del fondo del senso. Il senso sta nell’origine: della terra, di sé, delle storie.
Sta in ogni poesia, in ogni parola di una poesia, in ogni sillaba di ogni parola. Nel ritmo di un verso, nel suo fiato, nel suo respiro.  Nella riflessione – dolorosa-  che l’indicibile non si può dire, con nessuna forma, nessuna metafora. Che per l’indicibile non c’è lingua o c’è solo quella in cui parlano le cose mute, come dice Hugo von Hofmannsthal  nella Lettera di Lord Chandos.
Come ogni grande poeta, Verri sfida parola per parola la condizione dell’indicibilità con la coscienza disperata dell’insensatezza di  quella sfida. Ma non può fare che questo. Anche se sa che alla fine restano solo i quaderni, lo stupore, il carico di svuotate,  stremate, sfibrate parole.
C’è un viaggio in ogni libro di Verri. O piuttosto un correre continuo, con ali bianche, quasi senza volto, verso il solito albero d’oro, verso il solito vecchio profumato eldorado.

C’è chi dice che chiunque scriva una volta qualcosa, sia condannato a scrivere e riscrivere sempre quella stessa cosa. Probabilmente è vero. Come sono le prime conoscenze e le prime esperienze a conformare e a dare senso a tutta  un’ esistenza perché su di esse si innestano le conoscenze e le esperienze che vengono dopo, ad esse si rapportano e con esse si confrontano, allo stesso modo sono le prime esperienze di scrittura che aprono i varchi per le scritture successive.
Per Verri è stato così. Lui ha scritto e riscritto sempre Il pane sotto la neve. Si era lasciato – sapientemente- molte cose da dire: storie da continuare ( e da non concludere mai), personaggi da far crescere.
Ecco, appunto. Verri ha fatto crescere Il pane. Al modo – allo stesso identico modo – in cui si fa crescere un figlio. Ne ha raccontato quella crescita.
Ci sono libri che sono un destino. Non si pensano, non si cercano. Accadono, e dal momento in cui accadono non si può fare a meno di tenerseli, non si può fare a meno di rispondere ad essi , come si risponde al destino. 
Per tutto il tempo che ha scritto, per ogni parola che ha scritto, ha risposto al richiamo o al comando di quel libro. Tutto quello che ha scritto è stato un tentare di dare delle risposte alle domande che si era fatto in quel libro. Gli era rimasto nel sangue, anche quando in certe sue sperimentazioni sembrava che si fosse allontanato, come rimane nel sangue un figlio anche quando ce ne allontaniamo o si allontana.
In fondo ogni cosa dipende dal principio. Anche la scrittura dipende dal principio.
Alla principio della poesia di Antonio Verri c’è uno stupore. Alla fine c’è quello stesso stupore. In principio c’è innocenza e furore. Alla fine la stessa innocenza, lo stesso furore. Una sola cosa non c’era in principio e che alla fine si rivela, dopo essersi insinuata subdolamente: la paura del silenzio.
Verri alla fine aveva paura del silenzio che covano le parole.  

Sono rientrato nei libri di Antonio come se stessi rientrando in una casa degli affetti. Di tanto in tanto ho dovuto sforzarmi per trattenere la commozione.
Succede.


Nota Bibliografica ( con qualche appunto).
In vent’anni su Antonio Verri si è scritto molto. Qualche volta anche a sproposito, marcando i tratti  dell’autore e trascurando la squisita qualità dell’opera. E’ successa la stessa cosa con Salvatore Toma: strane coincidenze annodano a volte la vita e la morte degli amici.
Qui faccio soltanto alcuni riferimenti. Probabilmente dimentico qualcuno e me ne scuso con la certezza che non avrà dubbi sull’innocenza della dimenticanza.
Antonio Verri. Fabbricante di armonia, a cura di Fernando Bevilacqua, Luigi Chiriatti, Maurizio Nocera, Istituto Diego Carpitella, 1998.  
Il mondo dentro un libro, tesi di laurea di Simone Giorgino.
(Entrambi i testi contengono una preziosa bibliografia di e su Antonio Verri. )

Un saggio di Nicola Carducci, “Le audacie espressionistico- sperimentali di Antonio Verri”, in “Apulia”, giugno 1997; poi in Scrittori salentini tra coscienza del passato e letteratura, Pensa, Cavallino, 2005, pp. 339-353.
Antonio L. Giannone, L’attività letteraria nel Salento, in Ettore Catalano ( a cura di) , La saggezza della letteratura, Ed. Giuseppe Laterza,  Bari, 2005.
Rossano Astremo, Antonio Verri: Postmodern / Postmortem, in Musicaos.it; a cura  dello stesso, Omaggio ad Antonio Verri, Vertigine, Pensa, 2006.
Paolo Vincenti, “Per non dimenticare Antonio Verri” in  Di Parabita e di Parabitani, Il laboratorio, Parabita, 2008.
Fabio Moliterni, Il vero che è passato, Milella, Lecce, 2011, pp. 370-372
Da segnalare l’attività culturale del Fondo Verri, che significa Mauro Marino e Piero Rapanà: hanno idealmente continuato nell’opera di militanza,  aggregazione, di fare insieme, che ha connotato il lavoro di Verri.
Nello stesso contesto si colloca il contributo di Fabio Tolledi e di Astragali.
Da tenere in conto gli interventi di Aldo Bello e Salvatore Colazzo, Ennio Bonea e Donato Valli,  di cui si trovano i riferimenti nei volumi citati contenenti la bibliografia. 
Intenso e costante è stato  l’interesse di Maurizio Nocera per la figura e l’opera di Verri, tanto che è difficile selezionarne gli interventi. Ma per chiunque voglia interessarsi di Verri, i lavori di Nocera risultano fondamentali.
Non si inserisce nella bibliografia una fonte orale, ma se si potesse si dovrebbe citare Fernando Bevilacqua per il lavoro appassionato di diffusione dell’opera di Verri, per l’appassionato opporsi all’offuscamento della sua memoria.  



ANTONIO ERRICO è nato in provincia di Lecce dove vive e lavora come dirigente scolastico di un liceo.  Ha pubblicato libri di narrativa e di saggistica: Tra il meraviglioso e il quotidiano ; Favolerie ; Il racconto infinito. Saggio su Luigi Malerba ; Fabbricanti di sapere. Metodi e miti dell’arte di insegnare ; Angeli regolari ; L’ultima caccia di Federico Re ; Salento con scritture ; Viaggio a Finibusterrae;  Stralune ; Le ragioni della passione. Approdi e avventure del sapere; L’esiliato dei Pazzi;  saggi e racconti in volumi collettivi.  Ha curato l’antologia Poeti a Finibusterrae , edito dalla Provincia di Lecce, e la riedizione di Secoli fra gli ulivi di Fernando Manno .
Collabora a quotidiani e periodici, a riviste letterarie e scolastiche. 


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