Su “Nuovo Quotidiano di Puglia”, 16 ottobre 2013
VERRI, L’UOMO CHE DANZAVA CON LE PAROLE
di Antonio ERRICO
L’opera di uno scrittore appartiene a tutti. L’uomo che ha scritto l’opera, invece, no. Per cui, quando l’uomo che ha scritto l’opera non vive più, appartiene esattamente a chi è appartenuto quando viveva. Non a chiunque.
Nei vent’anni che sono passati dalla morte di Antonio Verri, molti si sono dati licenza di entrare nella vita della persona, spesso tessendo un’aneddotica che, se non era falsa, non aveva comunque alcuna rilevanza. Peraltro talune volte della sua opera non avevano letto neppure mezza riga. Ma si può in qualche modo giustificare il fatto, considerando che il destino dei giganti è quello di ritrovarsi i nani sulle spalle.
In questi giorni, però, Simone Giorgino ha pubblicato con Lupo editore, un saggio serio, accurato, approfondito, intitolato “Antonio L. Verri. Il mondo dentro un libro”. Un’analisi dell’opera metodologicamente coerente, una bibliografia di e su Antonio Verri precisa, una contestualizzazione dell’opera con i rimandi essenziali, l’individuazione di quelli che sono stati i riferimenti letterari e i modelli stilistici, le finalità, i caratteri e gli esiti della sua sperimentazione. Oltretutto, l’attendibilità del saggio di Giorgino è testimoniata dalla sua provenienza da una tesi di laurea di cui è stato relatore Antonio Lucio Giannone.
Giorgino rileva come per Verri il linguaggio sia autonomo rispetto al mondo esterno. Tutto si genera, si sviluppa e si consuma e poi si rigenera, si trasforma e si dissolve ancora, all’interno dell’universo testuale. Verri non vuole narrare l’accaduto; vuole creare un mondo “ altro”, e del mondo reale lo attrae non il fenomeno ma la parola che dice il fenomeno. Anche l’elemento autobiografico, di cui comunque è tramata l’opera, a volte sia pure soltanto come memoria di suggestioni, svolge la funzione di un pretesto o di un impulso quasi involontario. E’ un po’ quello che Lewis Carroll fa dire al suo Humpty Dumpty: quando uso una parola, essa vuol dire esattamente quello che decido io, né più né meno.
Diceva Antonio Verri che la letteratura è un demone che si nutre di suoni, impensabili giochi verbali, metafore, analogie, frantumazioni di senso.
Ecco. Lui ha ha dato forma a questa idea, operando costantemente uno scarto sia dalla comune grammatica della visione, sia dalle modalità strutturate di espressione.
Ho avuto il privilegio di leggere i libri di Antonio Verri prima che venissero pubblicati, e di volta in volta mi rendevo conto che la scrittura era sempre più governata da una logica interna, rispondeva soltanto ai movimenti e agli impulsi ritmici, fonetici, fonosimbolici, che erano le parole a portare il pensiero e non il pensiero a determinare le parole. Come ogni grande scrittore, Verri era convinto che le storie non esistessero già ma che venissero generate da voci che venivano da molto lontano e da profondità sconosciute. Allora lui cercava di ascoltare quelle voci, di decifrarne a volte l’allegria e a volte il dolore, a volte la rabbia e a volte la malinconia, a volte la felicità e a volte la disperazione.
Cercava di attribuire un ordine testuale alle schegge di senso, alla frammentarietà, di arginare con muraglie di parole la dissoluzione alla quale sono destinate le creature, di salvarle dall’oblio attraverso una rigenerazione quasi magica.
Perché la scrittura per Antonio Verri era come una magia. Anche se sapeva – sapeva perfettamente – che poi, alla fine del conto, alla fine del gioco, non restano altro che quaderni, uno stupore, il carico di stremate, sfibrate parole.
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