giovedì 5 dicembre 2013

Perchè vedi Antonio...

di Vito Antonio Conte

Sabato ultimo del novembre già andato, a Vignacastrisi, s’è svolto il reading “Maledetti Poeti”, voluto dall’Officina d’Arte di via S. Francesco (alias Agostino Casciaro… in collaborazione con il Consorzio Autori del Mediterraneo, l’Associazione Culturale Parabola A Sud e l’Assessorato alla Cultura del Comune di Ortelle). Più che un omaggio o un ricordo, una testimonianza d’amore al poeta (di Caprarica per nascita, ma del mondo per vocazione) Antonio Leonardo Verri (nel ventennale della sua morte). Un coro di voci s’è levato a riprova del fatto che Antonio è sempre vivo. Una tra le tante manifestazioni che quest’anno han parlato di Antonio e con Antonio. Mi accorgo che ne scrivo come se fosse (e non fosse stato) mio amico, dandogli del tu, chiamandolo per nome. Invece, non l’ho mai conosciuto. Forse. L’ho incontrato (questo è certo) dopo… Gli ho anche rubato (ma Antonio lo sa…) un verso (che ho usato a mo’ di esergo per un mio libro), ma ben altro gli devo… E allora, per ringraziarlo, tra tutto quel che ho sentito la sera furibonda di pioggia e di vento e di parole del trenta novembre scorso, rubo a Giovanni Santese (ma Giò lo sa…) un suo vecchio “scritto” (liberamente tratto e ispirato da “Il Fabbricante Di Armonia – Antonio Galateo” di Antonio Verri) che, all’epoca, firmò (Giovanni intendo) P.E. (ossia Pessimo Elemento, dal nome del suo blog, ormai chiuso da tempo, ma che – come i buoni versi – ancora gira e rirerà nel tempo…). Ecco:  

Dialogo principiato, abbandonato
e mai ripreso con Antonio Verri
di Giovanni Santese
perché vedi Antonio
ad uno scrittore capita di trovarsi di fronte una campagna arida, di parole, estesa fin dove posano gli occhi, polverosa e sbrindellata quanto basta (e se non capita è perché non si è scrittori), matta e spessa ad assorbire i raggi dell’ispirazione, del tumulto, dell’abbrivio poetico potente quanto serve ad arare di solchi immortali tanta arsura spianata

perché vedi Antonio
in quei momenti, in quei momenti là dico, è bello (o utile, dico) avere un alter ego, che parli per noi, che come un menestrello riunisca in uno spartito parole vuote apparentemente senza senso, ma che assumono leggendole una musicalità strabiliante, un alter ego insomma… con panni d’arlecchino, la faccia impiastricciata di neve e di farina, al lieve andare sbandando la figura, mima, sorride, fa boccacce… oh grandioso figlio del nulla, ma… è stefan, è stiffan l’inventore, il solitario impostore, lo svagato cercatore di lucchi, l’eterno pellegrino suasore, il sognatore cocente, babelico, fumoso… ma è proprio galateo questo mago che viene, questo diavolicchio che cresce come il timo… tira una parola dietro l’altra, simula uno squilibrio, continua il gioco… è tanto preso, però, che il tutto spesse volte gli sfugge di mano: ecco, allora è qualcosa di divino, piroettante, aristocratico (per usare i suoi suoni), allora nient’altro che parole, neologismi, accettazione propria, doppie, elisioni, d’una musicalità strana, umorale, faticante… (da parte, la mar: istigazione a movimenti lenti, riflessivi, a godere del tempo, istigazione al tabulare, all’intrico di fatterelli, numeri, folletti, cuoricini… istigazioni, istigazione alla cabala…) oh no, guatarazzi no, scalcioni puttenosi, minnàculi spersi, sguanci, ronze, parse, pizzi, gustose pasticche, quaresimali, mustocciomini, non v’è più alto mondo di questo vigneto, cellule serrate, rami a stella familiare…; e sotto questo vigneto, vi dico, è luce, è luce che pressa sul gran vuoto, che arrotonda l’idiozia dei caseggiati – questi che sono cristalli, questi che sono sorde caccole di luce, cadute in terra, diventate costoni pali treni, muntagne staziose, burri, corpi di luce melampina, croste graalitiche, varicellose, foolmoni e sarsi ferrosi, cloache… sono diventati

perché vedi Antonio
se la paura di dare mortal respiro aguzza l’ingegno e rende impavidi quel lunghissimo secondo d’agonia celeste, innocuo il dolore, arioso il corpo e leggero, come parole posate sulle nuvole e con le nuvole lasciate andare, o ancora se dato mortal respiro io continuo a parlarti fusse ca fusse ca nu pocu me sta fissu?

perché vedi Antonio
io direi poco umilmente – datemi un fonema e vi racconterò il mondo – mentre tu da come arrotoli la lengua di pesce, sembri dire, mio stiffan, l’ordito d’o mundo è intrigante, l’òrrito delle cose di voialtri è sconvolgente, perciò i miei scoppi di vuoto, perciò le finezze malianti, le rughe color croco, lo stupore profondo, smemorante, le cische caddenti, i frisi festonnati… perciò perciò s’arrischia la lengua, quando spunta s’arrotonda – fummi, corsieri, busti, corpetti – è di un biancore a pois, gelide chiazze, tepori rosati, petaccio però: che sia petazzo, sfiziomio, che lascimpiedi la tremolante cassarmonica, che tutto scoperchi, tutto sprofondi in una nuova scia sotterra, che porti con sé la mia metà faccia, qualche foca che ho per troppo fuoco, per veluscio, per vinetto… che prti via tutto ’nsomma, che porti di me quel che vi ho detto, che scivoli senza arresto senza fondo

perché vedi Antonio
se dall’evoluzione della specie l’uomo somiglia sempre meno a se stesso… allora io tanto fervore non lo capisco, questa ostinazione a voler salvare i poeti dalle fiamme dell’inferno più inferno della terra, questo voler liberare i poeti dal loro impegno di buffoni di corte, dalla malasorte, con quell’ondeggiare tra la vita e la morte, ma poi… a noi che ce ne frega, noi sappiamo com’è iniziato tutto… e come andrà a finire tutto questo… perché noi vediamo all’orizzonte che corre, già corre la tila corre… e noè noè galleggia, non s’accorge ma perde consonanti, gemend, tondeggia… e la tila intanto corre e corre… la luce stupirà… stupirà i suoi occhi… e i miei così vergini di luce… che corra dunque… che corra questa scia, che giri sul giro della terra… che scinda, che scanni se vuole, porti erva di taglio e, nelle isazze, gli sfinimenti di un dio vendicativo, che ama le fòffule e i miraggi, corbelle frottole appannaggi… cantate cantastorie cantate, mimate cavalieri mimate le imprese dell’orzo bollito, suonate suoni suonatori suonate suoni non trasportabili in codici tipografici

perché vedi Antonio
o animale favoloso, o mio sperso, gnorreo, ciciarroso, o dolloso, o dolloso mio vecchio sogno che consumo in una città di boati o beoni, in un tempo che non tollera più buffonerie… ma pitto, farro, sbarro… cazzo… buffonerie saranno.
Eccome.   

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