Fra pochi giorni da Il Laboratorio di Parabita di Aldo D'Antico l'edizione de La salle de bain, inedito di Antonio L. Verri. Vi anticipiamo la Postfazione di Simone Giorgino.
Un viaggiatore una volta
chiese alla domestica di Wordsworth di mostrargli lo studio del suo padrone, e
lei rispose: «questa è la biblioteca, ma il suo studio è la fuori, oltre la
porta».
Antonio Verri, La salle de bain
Il
bizzarro libro che abbiamo fra le mani, La salle de bain di
Antonio Verri, esiste per davvero o non esiste? La riflessione attorno allo status
della Salle può sortire effetti decisivi per un più corretto
inquadramento storico-critico dello scrittore, aiutandoci a comprendere le
direttrici della sua ricerca stilista che, malgrado l’apparentemente anarchico
e a tratti furioso sperimentalismo, riconducibile, di primo acchito, al côté
della scrittura automatica, risulta, invece, sempre molto sorvegliata, come
attestano, peraltro, non solo alcune fondamentali riflessioni estetiche
disseminate dall’autore nel corso della sua lunga attività di critico
militante, ma persino alcuni marginalia e le pagine dell’importantissimo
Diario che Maurizio Nocera sta per pubblicare. In una di queste si
legge, appunto: «La salle de bain non esiste. Avevo pure cercato di
salvarla in qualche modo […]. A parte i capitoli che ancora sottoscrivo, e che
userò, ci sono molte banalità teoriche spacciate per narrativa. E quando due
mesi fa mi hanno telefonato che la stavano prendendo in considerazione […] ho
risposto di no […]. Il movimento interno, quel “movimento”, più una leggerezza
oscena, saranno i soli […] punti fermi di questo libro che vorrei scrivere». In
questo senso, dunque, La salle de bain non esiste, ovvero il suo autore
non la riconosce come oggetto letterario finito, negandogli l’imprimatur
e bloccandone, di fatto, la circolazione in vista di una pubblicazione più
‘matura’, un nuovo testo riscritto e ampliato, che noi oggi leggiamo col titolo
di Bucherer l’orologiaio, il romanzo postumo pubblicato dalla Banca
Popolare Pugliese nel 1995 su iniziativa di Aldo Bello e Antonio Errico.
Quest’ultimo scrive, nel 2002, un interessante articolo, intitolato Tutta la
vita per un declaro, che ripercorre la genesi redazionale della Salle
e la successiva decisione di effettuarne una drastica revisione:
A Roca, una sera, una quasi notte della fine di agosto
del novantuno, Verri mi diede un dattiloscritto di trentasette cartelle
intitolato La salle de bain, perché gli dicessi che cosa ne pensavo.
Lessi il lavoro. Lo rilessi. Ci rivedemmo un po’ di giorni dopo in un’osteria.
Con quell’affetto presuntuoso che mi faceva sentire mia la sua scrittura, così
come la sua grande umiltà gli faceva sentire sua la mia, dissi che quel
racconto lungo non reggeva. Mancava di un’architettura narrativa; era
metatestuale, metanarrativo. In quelle pagine parlava del suo senso della
letteratura senza quelle situazioni di mediazione, di ponte verso il lettore,
che invece c’erano ne I trofei della città di Guisnes e nel Naviglio
innocente, che pure erano scrittura sulla scrittura. La salle de bain non
fu mai dato alla stampa in quella versione. Verri ci lavorò sopra, intorno,
dentro. Per un anno e mezzo. Nel maggio del novantatré mi consegnò un dattiloscritto
di settantasette pagine con il titolo di Bucherer l’orologiaio nel quale aveva fatto confluire La salle de
bain. Mi chiamò tre sere dopo per chiedermi se avessi finito di leggerlo.
Gli risposi che mi mancava qualche pagina, ma che stavolta comunque funzionava.
Questa volta sì che funzionava. La notte alle quattro mi telefonò sua moglie
per dirmi che era andato via.
Tra l’una e l’altra redazione dell’opera estrema di Verri –
sempre ammesso che La salle de bain possa essere derubricata a materiale
preparatorio del Bucherer e non considerata come lavoro a sé stante –,
esistono, però, sostanziali differenze che sono state recentemente messe in
luce da una ricerca di Francesca Greco, fresca testimonianza di una nuova
primavera di studi critici sullo scrittore salentino e di un mai sopito
interesse nei suoi confronti. Verri riscrive praticamente quasi tutti i
capitoli della Salle, ad eccezione del solo capitolo 6 e dei Cifrari,
con l’evidente intento di espungere gli elementi più marcatamente
metanarrativi, in ragione del fatto che la metafora dello scrittore al lavoro,
cioè il gioco di riflessi e diffrazioni che vede specchiarsi la scrittura nella
scrittura, il libro nel libro ecc…, onnipresente nel romanzo di partenza – sono
queste, forse, le «banalità teoriche» cui Verri si riferiva nel suo Diario?
–, è sostituita, in Bucherer, dalla più raffinata metafora
dell’artigiano-inventore intento a costruire un suo strabiliante congegno. I
brani confluiti nell’opera postuma, come detto, sono stati oggetto di severe
revisioni, tagli e manomissioni e solo saltuariamente si è scelto di conservare
immutato il testo di partenza. Le parti scritte in lingue straniere sono state
drasticamente ridotte, e così anche il numero degli improbabili
personaggi-situazioni che affollavano il cicalante melting pot della Salle,
creando, come ha giustamente osservato Cosimo Colazzo, più che una trama, un
insieme frammentario di «stringhe», di «sequenze ripetitive, senza profondità»:
«Verri utilizza il concetto di stringa per trovare una dimensione narrativa,
come produzione di sequenze adinamiche». Questo ‘concentrato’ testuale è stato
poi collocato all’altezza dei capitoli V, VI, X, XII, XIII e XVII del Bucherer,
conferendo al nuovo romanzo quelle caratteristiche e quei «punti fermi» che
Verri voleva salvaguardare dal testo di partenza, e cioè un «‘movimento’» narrativo
fluido e una «leggerezza oscena», rappresentata dalle appartate elucubrazioni
partorite (evacuate?) negli ambienti ovattati di una sotterranea ‘sala da
bagno’, «un mondo sotterraneo, immenso, incredibile, inaspettato. Nel cuore
meccanico della città» (p. 7), a mille miglia dal mondo ma «ad un palmo dal
selciato» (p. 47).
La salle de bain, dunque, non esiste. Eppure, a
dispetto delle intenzioni di Verri, il testo, consegnato ad alcuni amici per
conoscerne le impressioni e per saggiarne la ‘tenuta’, ha cominciato, suo
malgrado, a circolare e ad avere pian piano una vita autonoma, accompagnato da
un’aurea di mistero e da una devozione alimentata anche dalle tragiche
circostanze della scomparsa del suo autore. Fabio Tolledi, uno di quei
fortunati «pre-lettori» (uso il lessico verriano), ne ha ricavato un fortunato recital
portato in scena al teatro Paisiello di Lecce fra il febbraio e il maggio
2011, mettendo anche online, sul sito di Astragali, una parte
consistente del suo lavoro; Cosimo Colazzo ne ha parlato in maniera attenta e
diffusa nel suo intervento dal titolo “La salle de bain” e l’estremo
orizzonte del “Declaro” nel recente numero speciale della rivista «Marsia»
dedicato a Verri (a. III, n. 1, dicembre 2013, pp. 3-14); al Fondo Verri
di Lecce si sono tenute diverse letture pubbliche della Salle a cura di
Mauro Marino e Piero Rapanà; e infine, ora, Aldo D’Antico ha deciso di
pubblicare la versione da lui posseduta, peraltro con la stessa veste
tipografica già utilizzata dal suo Laboratorio per I trofei della città di
Guisnes, dando così l’opportunità ai lettori di conoscere il
contenuto di questo oggetto misterioso.
L’opera è stata scritta di getto nell’agosto del 1991 a
Roca, una delle località più suggestive del litorale adriatico salentino, ma il
paesaggio che fa da sfondo alle vicende narrate non è quello che lo scrittore
de La cultura dei Tao ci aveva più volte rappresentato nei libri
precedenti: in quest’ultima fase della sua purtroppo breve attività, Verri
sceglie di ambientare le sue storie in Svizzera: più precisamente, La salle
de bain è ambientata a Yverdon-Les-Bains, centro termale noto per le sue
acque sulfuree, da lui personalmente visitato nel 1986, nel 1988 e nel 1990 in
occasione di alcuni incontri di poesia aperti a scrittori di varia nazionalità;
e Bucherer l’orologiaio è ambientato a Zurigo, città che Verri aveva
conosciuto da giovane immigrato in cerca di fortuna.
È, questa, una fase del suo percorso creativo che Verri
avverte – si potrebbe dire, forse, profeticamente – non come transitoria, ma
come finale, conclusiva: «Una volta raccontavo dell’inizio del mondo, del
profumo artificiale, non spontaneo. Oggi il dissesto, la fine» (p. 18); la sua
ricerca si è fatalmente impantanata in «qualcosa di sconosciuto, di difficile,
di incerto, di sicuramente finale» (p. 47). La salle de bain rappresenta,
a mio avviso, lo specchio di un periodo d’indolenza non dico creativa, ma un
qualcosa che ha a più che fare con l’otium dei latini, o piuttosto con
l’amara consapevolezza dell’aleatorietà dell’intero progetto di una vita, un
momentaneo risveglio dal ricorrente, ossessivo sogno del Declaro, cioè
il desiderio ambizioso di racchiudere il mondo dentro un libro, nel sempre vano
tentativo di rappresentare ciò che non è permesso rappresentare – «come
annotare l’inesprimibile, come fermare la vertigine, l’allucinazione della
parola?», si chiede Verri in un importante passo della Salle (p. 55) –,
cioè la multiforme e pulsante varietà del mondo nell’esiguo spazio di un’opera
letteraria.
C’è una sorta di piacere che l’autore sembra provare in una
temporanea (ma non si sa quanto lunga) sosta del suo cammino, nel torpore
umbratile di un’oasi fatta di parole e di storie semigrezze che Verri indugia
ad assaporare a fior di labbra, o per la loro valenza fonica o per il gusto del
racconto fine a se stesso: «Ma so anche che fra me e il Declaro, tra Sally e il
Declaro, c’è molta indolenza, forse piacere dell’ombra, paura di non so che,
voglia di finirla» (p. 47); c’è come il timore di raggiungere la sempre
agognata «forma perfetta», la cui fissità fa ribrezzo perché ricorda da vicino
il freddo cadaverico del rigor mortis; e c’è il desiderio di scongiurare
quella rigidità attraverso una litaniante logorrea, modulata come
un’ininterrotta formula magica attraverso cui far lievitare le cose e le
parole, perché, come affermava Gilles Deleuze in un libro scritto insieme a un
altro grande ‘minore’ salentino, Carmelo Bene, «ciò che conta è il divenire»:
"L’interessante è in mezzo,
ciò che succede nel mezzo (au milieu). Non è un caso che la velocità
massima sia in mezzo. […] il passato e anche l’avvenire, è storia. Ciò
che conta, invece, è il divenire: divenire rivoluzionario. […] il divenire, il
movimento, la velocità, il turbine, si trovano in mezzo. Il mezzo non è una
media, è invece un eccesso. Le cose crescono nel mezzo. Era questa l’idea di
Virginia Woolf. E il mezzo non vuol dire affatto essere nel proprio tempo,
essere del proprio tempo, essere storico; al contrario. È ciò per cui i tempi
più diversi comunicano. Non è né lo storico, né l’eterno, ma l’intempestivo. È
proprio questo, un autore minore: senza avvenire e senza passato, ha solo un
divenire, un mezzo, attraverso cui comunica con altri tempi, altri spazi". (Sovrapposizioni,
Quodlibet, 2006, p. 90)
Verri si augura di non «cadere in una forma definitiva» (p.
30), e perciò continua a raccontare, quasi senza riprendere fiato, le sue
private, piccolissime cosmogonie: «Lo Yn e lo Yo non si erano ancora divisi,
formavano un ammasso caotico, simile ad un uovo, dai contorni vaghi, ma con
dentro germi. Poi, la parte più pura e chiara si assottigliò, si estese e
diventò il cielo; la parte più pesante e torbida si depose, e diventò la terra
[…] tra l’uno e l’altra sorsero esseri divini» (p. 39). Tutto, compreso il
narratore, appare in balia di una metamorfosi continua e inarrestabile:
«Trasformato di nuovo fui un salmone azzurro, fui un cane, fui un cervo, un
capriolo sulle montagne, fui un bastone e una vanga; per un anno e mezzo fui un
trivello in una fucina. Fui anche un gallo bianco picchiettato, voglioso di
galline. Fui finalmente un sasso, un cristallo. Poi fui trasformato di nuovo!»
(p. 41)… e così via, nel turbine di un continuo divenire, che non può (che non
deve) interrompersi. Il senso del viaggio, ci dice Verri, non va ricercato
nella meta che si sa irraggiungibile, ma nel percorso, nel viaggio stesso: «Non
sarà mai come quello che avevo pensato. L’oggetto balena, il libro in
cartisella, erano per accordarmi a questa bellezza così incerta, così
imbarazzante» (p. 86). Né potrebbe essere altrimenti, dal momento che le cose e
le parole non coincidono (ritorna qui un tema centrale in Verri, già affrontato
dall’autore, per esempio, in un passo importante de La Betissa,
Kurumuny, 2005, pp. 97-98), e l’idea di rappresentare il mondo attraverso le
parole è un esercizio oltre che pericoloso, futile, un inane lambiccamento che
non potrà portare mai a nessun risultato concreto: «Una volta avevo con le
parole, con le quali avrei dovuto sostentare anche quest’ultimo mio libro, un
rapporto così affascinante, una sorta di dipendenza attiva, un corteggiamento
continuo» (p. 44).
È così che la Salle,
come nota Colazzo, cerca una «forma proprio nello spazio dell’informe», nel
disordine caotico di una sempre più sfilacciata città postmoderna: «Tracciati
di mappe. Viari. Un pesce che danza mentre un signore distinto prova l’ecstasy»
(p. 78), una città in cui si mescolano, senza soluzione di continuità, reperti
e velleità letterarie assieme ai detriti della più triviale ‘società dello
spettacolo’, e in cui si sente, sempre più assordante, «Il brusio dei media che
nascono ogni giorno» (p. 18). A un certo punto del racconto, Verri scrive: «Mai
è stata così impietosa la dissoluzione della tradizione» (p. 69). Ed è appunto
in questa frenetica sperimentazione/dissoluzione, fatta d’impasti plurilinguistici
(«firmamento di lingue», p. 59), di abbozzi di racconto («Sto costruendo per
flash, per fotogrammi, con frequenti spezzature di scena», p. 27), di
personaggi che si sovrappongono al narratore («Ero praticamente in ogni storia
ed ero la storia», p. 27), dal riciclo
di materiali già utilizzati nei libri precedenti – personaggi come Stefan,
luoghi come Guisnes, intere frasi o brani ripresi da Il naviglio innocente o
da La Betissa, che fanno della Salle una sorta di «studio del
Riuso» (p. 22) –, dal gusto per le caotiche enumerazioni assemblate per colmare
di suoni e di parole quel «Grande Nulla che ci hanno insegnato a temere» (p.
85), è da tutto questo verboso conglomerato che prende forma una letteratura
dell’azzardo, portata avanti da chi preferisce continuare a scommettere sul
rischio della variazione continua piuttosto che puntare sul facile consenso
assicurato da modelli più convenzionali di scrittura: «Si punta sui packaging
accattivanti per conquistare l’acquirente, e sulla qualità per non dispiacere
al consumatore; poi c’è la letteratura gonzaghesca o quella di bube […] quello
che è certo è che non si può fare a meno dei sognatori» (p. 36). E l’azzardo è,
per Verri, un modo per essere fedeli a se stessi, per continuare a essere dei
sognatori, affidandosi al ‘gioco’ che
più di ogni altro lo avvince, cioè il «piacere di scegliere, mescolare,
accumulare» (p. 87): «Un azzardo. Un gioco, quasi. È un gioco sotterraneo,
segreto, incruento, a cui l’autore non è certo estraneo: essere così vicino
all’ombra, eppure essere così avvinto da qualsiasi mappa di superficie» (p.
80). Il libro-mondo è un progetto irrealizzabile, e questo Verri lo sa bene. Ma
nel piacere dell’affabulazione, nel culto della parola e nella liturgia della
scrittura, c’è dato ravvisare il senso stesso della sua ostinata e
inconcludente ricerca: «Imperfetto com’ero, ero forse io la Bellezza» (p. 88).
Simone Giorgino
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