Sergio Torsello*
Uno degli aspetti meno frequentati dagli studiosi che si sono occupati dell’opera di Antonio Verri è quello del rapporto dello scrittore con la cultura popolare. Una dimensione apparentemente marginale nella complessa e stratificata produzione verriana che però, a ben guardare, si rivela uno strumento essenziale per addentrarsi nel “proteiforme” laboratorio creativo dello scrittore. Ho cercato in altra sede di evidenziare come l’intera sua opera poetica, narrativa, giornalistica e quella parallela di intellettuale militante e di “promoter” dell’underground creativo locale, sia stata segnata da un legame mai reciso con la cultura popolare. Nei primi anni ’80 infatti fu proprio Verri a tenere acceso un dialogo con alcuni protagonisti del folk revival degli anni ’70 quando ormai la riscoperta delle forme espressive della cultura locale aveva ceduto il passo ad una malintesa idea di modernità che aveva “ esiliato nelle bettole – ha scritto il compianto Aldo Bello con una felice metafora – “i canti improvvisati dei carrettieri”.
Uno degli aspetti meno frequentati dagli studiosi che si sono occupati dell’opera di Antonio Verri è quello del rapporto dello scrittore con la cultura popolare. Una dimensione apparentemente marginale nella complessa e stratificata produzione verriana che però, a ben guardare, si rivela uno strumento essenziale per addentrarsi nel “proteiforme” laboratorio creativo dello scrittore. Ho cercato in altra sede di evidenziare come l’intera sua opera poetica, narrativa, giornalistica e quella parallela di intellettuale militante e di “promoter” dell’underground creativo locale, sia stata segnata da un legame mai reciso con la cultura popolare. Nei primi anni ’80 infatti fu proprio Verri a tenere acceso un dialogo con alcuni protagonisti del folk revival degli anni ’70 quando ormai la riscoperta delle forme espressive della cultura locale aveva ceduto il passo ad una malintesa idea di modernità che aveva “ esiliato nelle bettole – ha scritto il compianto Aldo Bello con una felice metafora – “i canti improvvisati dei carrettieri”.
Su Pensionante dei Saraceni e Caffè Greco, Verri ospitò i primi interventi di Luigi Chiriatti (un breve scritto sulle ultime rèpute del Salento e una importante intervista a Luigi Stifani, il barbiere violinista che fu l’interlocutore privilegiato di Ernesto de Martino nel corso della sua celebre indagine sul tarantismo salentino del 1959), l’appello di un gruppo di intellettuali di base (“Ritorno a San Rocco”) per la tutela e la rivitalizzazione della Festa di Torrepaduli e, nel 1985, l’articolo firmato a quattro mani da Luigi Chiriatti e George Lapassade sulla sessualità nella cultura popolare salentina. Qui, Verri si limita a offrire uno spazio di visibilità e di riflessione a un “movimento” per certi versi in crisi dopo la stagione aurea del folk revival e quella, intellettualmente ancor più sofisticata, dell’etnoteatro (ispirata alle teorie di Eugenio Barba). Si limita a registrare un fermento, un fuoco che cova sotto le ceneri, un flebile segnale di ripresa al quale offre una sponda, comunque una sensibilità e una attenzione niente affatto scontata in quegli anni. E non va dimenticato che nel 1983, per le edizioni del Pensionante, sarà sempre Verri a pubblicare Col tempo e con la paglia, una raccolta in “grico” del poeta contadino di Sternatia, Cesare De Santis, “cultore, tenace soldato e detentore” – scrive Verri nell’appassionata introduzione - “degli ultimi segni e segreti di una lingua e di una civiltà, la greco – salentina, in rapidissimo e totale disfacimento”. Nel 1986 esce invece quello che personalmente considero il testo più affascinante sul mondo popolare salentino che sia stato scritto da un poeta dal dopoguerra a oggi. Certo, c’è stato il Bodini della Luna (Uno l’ho visto io/camminare col capo in giù/ sul soffitto/ altri bevevano a un pozzo di scorpioni e di serpi/non senza gridi/ nel viola acido e sporco di una cappella/mentre fuori era il chiaro giorno/ steso così avanti/ come il Cristo del Mantegna) e c’è stato anche il Pagano dei Privilegi del povero (Come tarantati a capofitto/ scenderanno giù, verso la polla,/ d’ogni scienza possibile, più giù,/luminoso delitto/ a conoscere il segno in cui tracolla/la nostra schiavitù?..Come tarantolati, in ridde, in cori/ di ridondanti mimiche vedremo zampillare dal grembo dei graniti/ l’ombra che ci ristori? Oh gettiti, oh pietà! L’urto supremo/ schianta in eterni riti). Ma credetemi, al confronto questi sono semplici esercizi di stile. Niente di più. Il testo di Verri è destinato al catalogo della mostra “La cultura contadina”. Il titolo, un classico stilema verriano, è a dir poco depistante: La cultura dei Tao. Ho letto e riletto più volte questo scritto e ogni volta con sorpresa ho trovato tra le sue righe parole diverse, spunti per una nuova riflessione, un’altra occasione per mettere in discussione luoghi comuni consolidati, retoriche vuote, vecchi e nuovi “esotismi”. E’ un testo stracitato, ma solo per un passaggio di insolita, folgorante bellezza:
Cambia, cambierà di molto il volto della campagna, degli aggregati umani, di interi paesi. È cambiato dal dopoguerra ad oggi, cambierà ancora tra due, tre generazioni. E cambieranno naturalmente anche abitudini, modi di lavoro, rapporti…, ecco quello che non cambierà mai sarà l’idea del dialogo con la terra che l’uomo ha stabilito dai tempi, il grosso respiro, il sibilo lungo che si può udire solo di mattina, mirando nella vastità dei campi, con accanto sentinelle silenziose gli alberi d’argento.
Ma è solo uno dei passi più ispirati. Il resto, il prima e il dopo, è un continuo andirivieni tra memoria del passato e l’eterno presente della scrittura, tra mito e storia, realtà e finzione letteraria. L’incipit (quasi un omaggio leopardiano, ha ricordato Fabio Tolledi) è un bellissimo, intenso dialogo con la madre, collocato in un tempo imprecisato: l’inverno che tagliava le gambe, le tasche gonfie di fichi secchi, l’inverno tristissimo perchè a Febbraio era già finita la scorta della monda. Secondo Rossano Astremo La cultura dei Tao segna l’adesione di Verri al materno come modalità di rappresentare la “voglia di oltrepassare le forme chiuse della letteratura dei padri”.
Ma c’è qualcosa che va al di là del puro dato letterario. “Tanto ho appreso, altrettanto mi è stato insegnato” scrive Verri. “Che per molti fiori di giardino esiste un corrispondente selvatico”, ho imparato ad apprezzare “poveri oggetti, situazioni le più umili, ma portate con tale dignità, che serenità buon senso e innamoramenti al limite del pianto, sono cose che io oggi, figlio di questa cultura, posso opporre a volte con tale incauta destrezza da rischiare di bruciare, con legna d’ulivo, il sibilo lungo di una cultura millenaria…”.
Poi si torna al racconto. All’immagine del padre, “nell’eterna sua magrezza, a capo chino, severo, somiglia un pìstico sognatore di lucchi, un tenero rabdomante di chissà quali sotterranei giacimenti… alle figlie sposate in altri paesi, alle fiere di paese, all’inverno dei pirichilli”… “La letteratura di questa gente magra, dalle mani callose, è fatta di fole e angiolese, di orchi benevoli, di tao che girano a mezz’aria, di spiritelli birichini, di fibule, di glimpe di penule di purissimi cavalieri che di notte riposano sui tetti bassi delle case bianche, o nelle corti, sotto la prèula, accanto al gelsomino, o in stàbule di campagna sopra lettiere di sarmenti, nella paglia”. Su tutto domina la mar (la madre) e la cultura dei tao. “Era stato un inverno tristissimo quello. L’inverno della calata dei tao. I tao ci sono sempre in un paese. I nostri paesi ne sono strapieni. Giocano, vorticano continuamente i tao in questa cultura, in queste contrade. A mezz’aria. Sono loro i regolatori di questa sposa, alle nenie, alle ballate ai contra dei trovieri di paese(…) loro che hanno inventato il cane dello Scialla che fece cento chilometri per un bicchiere di vino, la Peppa Landa che compra galline cadenti, il magico lumicino della Lucerna di Iacca, il Morso che fa ballare, i giorni della Vecchia, le acchiature in ogni angolo”… Vengono in mente le Lezioni americane di Calvino quando l’autore afferma: ”Se in un’epoca della mia attività letteraria sono stato attratto dai folktales, dai fairytales, non è stato per fedeltà a una tradizione etnica (dato che le mie radici sono in un’Italia del tutto moderna e cosmopolita) né per nostalgia delle letture infantili (… ) ma per interesse stilistico e strutturale, per l’economia, il ritmo, la logica essenziale con cui sono raccontate”.
Non c’è nostalgia regressiva, nelle parole di Verri, e tantomeno il gusto “antiquario” per una vagheggiata età dell’oro o per i falsi miti dell’autenticità e dell’origine. “Dal Salento “occorre guardare altrove – dice Antonio Prete in una recente intervista – oppure occorre guardare nel cuore del Salento, saltando stereotipi, convenzioni, cogliendo un’anima non fissata in formulette, in rituali turistici. Occorre scavare dentro di sé e avere uno sguardo capace di evocare quel che non è offerto alla vista, al consumo degli occhi”. E in questo balzo in avanti la “tradizione” non è una palla al piede, ma un’opportunità per immaginare un futuro più ricco e creativo. In questo senso (ma non solo), Verri è stato un visionario precursore di quel “rinascimento salentino” che oggi si riverbera nella musica, nel cinema, nella letteratura, nelle arti in genere. Verri s’inventa persino parole nuove, tanto da accludere al testo un Dizionarietto dei termini magici, nuovi o non comuni. A scorrere questo immaginifico vocabolario del nulla, si scoprono parole “morte” richiamate in vita per l’occasione, altre che denotano una certa competenza demologica, (“Contra: canzoni da contrasto amoroso. Le sentiamo cantare ancora a Borgagne (Le) da due vecchie contadine”); altre ancora che sono pura invenzione. E si scopre che i “Tao sono folletti dell’aria: “c’è dentro il salentino mao, il veneto bao, tanto altro”. Come non pensare a Il Narratore di Benjamin, un memorabile saggio degli anni Trenta, che insiste sull’idea della narrazione orale, esperienzale, che appartiene alla cultura popolare, contrapposta al romanzo come espressione dell’epopea borghese. L’idea, di certo non estranea a Verri, che nelle culture tradizionali l’apprendimento e la trasmissione dei saperi passano attraverso lo sguardo, l’ascolto e la parola. Attraverso il potere “magico” dell’affabulazione tradizionale. La madre, verrebbe da dire, di tutte le narrazioni.
Scrive Benjamin: “L’arte di narrare volge al tramonto perché viene meno il lato epico della verità, la saggezza (…) la narrazione è stata espulsa dall’ambito del discorso vivo e insieme fa percepire una nuova bellezza in ciò che svanisce”. Verri sembra quasi fargli eco: “Mi è stato insegnato – ma poi l’ho sperimentato da me – che vivendo, stando quanto più possibile lontano dal nulla, non si può fare a meno della saggezza e del piacere curioso dei proverbi, dei mille proverbi che dalla terra nascono, che i proverbi aprono al mondo, a variegate realtà, che niente c’è di tanto misterioso, di tanto affascinante, di tanto poetico, quanto un proverbio che si dipana al punto giusto, al posto giusto; che attraverso i proverbi è tanto magica, tanto plastica l’interpretazione del mondo che niente, nessuna cosa sulla terra, mi è parsa, mi pare così naturale, così saggia, così strapiena di candore...”. E viene da pensare, ancora, a Vincenzo Consolo che in una delle sue ultime interviste argomentava: ”Non c’è più la cultura popolare ci sono solo delle persone che cercano di continuare questa tradizione. E poi ci sono gli scrittori che lavorano sulla memoria, perché la scrittura senza memoria è una scrittura orizzontale, senza nessuna profondità”. Forse anche per questo la scrittura di Verri era una scrittura verticale, addirittura vertiginosa. Perché poggiava su radici solide e profonde. L’esatto contrario, insomma, di una scrittura orizzontale.
*da “Marsia” , Rivista di poesia – Anno III, N.1 Dicembre 2013. Numero speciale dal titolo Le pietre sopra le ali. Vent’anni senza Antonio Verri a cura di Salvatore Francesco Lattarulo, Progedit, 2013, pp.116, euro 15,00. Il fascicolo contiene contributi di Carlo Alberto Augieri, Fernando Bevilacqua, Rino Bizzarro, Nadia Cavalera, Cosimo Colazzo, Salvatore Colazzo, Stefano Donno, Antonio Errico, Vittore Fiore, Eugenio Imbriani, Salvatore Francesco Lattarulo, Mauro Marino, Maurizio Nocera, Fabio Tolledi
*da “Marsia” , Rivista di poesia – Anno III, N.1 Dicembre 2013. Numero speciale dal titolo Le pietre sopra le ali. Vent’anni senza Antonio Verri a cura di Salvatore Francesco Lattarulo, Progedit, 2013, pp.116, euro 15,00. Il fascicolo contiene contributi di Carlo Alberto Augieri, Fernando Bevilacqua, Rino Bizzarro, Nadia Cavalera, Cosimo Colazzo, Salvatore Colazzo, Stefano Donno, Antonio Errico, Vittore Fiore, Eugenio Imbriani, Salvatore Francesco Lattarulo, Mauro Marino, Maurizio Nocera, Fabio Tolledi
Nessun commento:
Posta un commento