La copertina del numero del Caffè Greco riletto da Alessandra Peluso |
“CAFFÈ GRECO”
FASCICOLO UNICO DI LETTERATURA, OTTOBRE, LECCE 1980.
Ho un tesoro fra le mani, non posso non lasciarlo parlare, gridare, la poesia militante, proletaria di Antonio Verri.
Il fascicolo unico di letteratura “Caffè Greco” curato da Antonio Verri ospita contributi di Rina Durante, Lucio Conversano, Pino Maggiore, Roberta Pappadà, Giuseppe Ianne. Nomi sconosciuti ai più, anche alla sottoscritta che legge e rilegge affascinata e incantata nei confronti di un passato che ha dato origini alla poesia salentina, al Sud quello di dolore, guerre, lotta di classe, sofferenza, aridità - un Sud che voleva a tutti i costi cambiare e farsi amare.
Il Sud - il nostro Sud - deriso dimenticato non certo dalla penna di Antonio Verri.
Si rabbrividisce a leggere i passi del “Caffè Greco”, sembra che i versi parlino, che ogni parola abbia un eco che ancora oggi va ascoltato.
Scrive Rina Durante ai giovani del Caffè Greco, a noi giovani: «Della poesia ho un'idea ecologica: esiste la comunità (Melendugno o New York, non fa differenza), fatta di gente che zappa, che fabbrica, che compra, che vende, che fa poesia. Fare il poeta è un mestiere. Chi lo sa fare bene è un poeta collettivo. Fare il poeta, (ma anche lo scrittore), è faticoso, perché è una grande fatica trovare la verità di tutti, ma ancora di più dirla a tutti. In un mondo che sempre più rinuncia al proprio volto, che fa di tutto per mistificarsi che tende all'appiattimento e al livellamento universale fare il mestiere di poeta è sempre più difficile». Allora - siamo negli anni '80 come adesso negli anni del secondo millennio - la cultura tende ad essere sempre di più livellata, sterile, strumentalizzata a fini utilitaristici dove l'unico scopo è quello del “divertissiment”, distrarre.
La poesia, la scrittura che tesse e ha tessuto la storia del Salento, del Sud è invece quella sofferta, vissuta, di lotta e conquista, di dolore verso una terra che alle volte sembrava indifferente alle grida di dolore.
Nonostante tutto c'è stato chi ha creduto nel potere della poesia, della conoscenza e aleggia fortunatamente sulle nostre teste, veglia sulle nefandezze, sulla nullità italiana.
Molti hanno creduto che essere poeti significava offrire versi per difendere il proletariato, i lavoratori, chi si sporcava le mani con la terra. Ed oggi a favore di chi o cosa si dovrebbe scrivere? Non esiste una politica, non esistono ideologie, non esistono coloro che difendono i diritti, i valori universali, la propria patria. O se ci sono non si vedono. Esistono però i poeti che scrivono la vita e cercano in qualche modo di dare speranza. «Come? Ora non conosci la conosci la vita neanche tu? … La tua composizione di sangue e di ossa è la pietra / focaia che non incendia più neanche ipoteticamente. / É cambiata la tua botte visualistica? / Hai compresso senza scoppio e l'aderenza / è pellurica». (Lucio Conversano).
Si leggono versi che parlano degli abitanti di un Sud emigrante, che descrivono la terra calda, l'odore buono del pane che brucia, l'aspro arancio dell'orto. «E guarda muto / nell'infinito / mare d'aria / alla ricerca / degli affetti / che non moriranno / mai. / E soffrendo non s'appaga / e vive / ricordi / lontani / sempre vicini / giustizia sociale / chiedendo / senza / pietà».
C'è la sperimentazione di fare poesia che appaia diversa nella forma con i dovuti spazi, i silenzi, ai quali solo il lettore ha il potere di dar forma, di darne un senso. (Pino Maggiore).
Ci sono molte altre voci nel fascicolo “Caffè greco” e c'è la bellezza disincantata di una nota di Antonio Verri scritta il 12 ottobre del 1980 che si scusa di certe imperfezioni, refusi o deficienze in sede di correzione di bozze. Che meraviglia!
Come si fa - mi chiedo - a dare retta alle imperfezioni, a tutte queste formalità descritte dal nostro Antonio quando - ammesso che ci siano - sono solo distrazioni che non possiamo permetterci di fronte a materia infuocata, a parole che parlano, ti arrivano, bruciano come magma incandescente, sono un senso contro il quale nessun errore ortografico ha valore e significato di esistere. Forse adesso si dà più retta alla forma perché la sostanza manca, e ciò che si vuole dire non ha forse un potere, un'energia così devastante da confondere e credere all'esserci, a ciò che è e non ciò che si vuole dimostrare tra orpelli e maschere varie.
La poesia è vita: necessità, esigenza, idee, sensazioni, emozioni ed è di questo che occorre parlare, di vita e viverla ognuno dando la propria testimonianza e il contributo perché tante morti di poeti (mi rivolgo anche alle donne) salentini e non, non siano state inutili. Perché le loro morti siano da monito per lottare con la penna, o con i propri strumenti a rinnovarsi o meglio a ritornare per fare una poesia militante che distrugga le ragnatele dell'ipocrisia e della menzogna, del perbenismo, che racconti la verità e che sia ascoltata perché cambiare si può, deve esserci la speranza non disillusa, ma sincera utile a dar forza e coraggio alla vita che - nonostante tutto - va vissuta.
Una rilettura di Alessandra Peluso
Ho un tesoro fra le mani, non posso non lasciarlo parlare, gridare, la poesia militante, proletaria di Antonio Verri.
Il fascicolo unico di letteratura “Caffè Greco” curato da Antonio Verri ospita contributi di Rina Durante, Lucio Conversano, Pino Maggiore, Roberta Pappadà, Giuseppe Ianne. Nomi sconosciuti ai più, anche alla sottoscritta che legge e rilegge affascinata e incantata nei confronti di un passato che ha dato origini alla poesia salentina, al Sud quello di dolore, guerre, lotta di classe, sofferenza, aridità - un Sud che voleva a tutti i costi cambiare e farsi amare.
Il Sud - il nostro Sud - deriso dimenticato non certo dalla penna di Antonio Verri.
Si rabbrividisce a leggere i passi del “Caffè Greco”, sembra che i versi parlino, che ogni parola abbia un eco che ancora oggi va ascoltato.
Scrive Rina Durante ai giovani del Caffè Greco, a noi giovani: «Della poesia ho un'idea ecologica: esiste la comunità (Melendugno o New York, non fa differenza), fatta di gente che zappa, che fabbrica, che compra, che vende, che fa poesia. Fare il poeta è un mestiere. Chi lo sa fare bene è un poeta collettivo. Fare il poeta, (ma anche lo scrittore), è faticoso, perché è una grande fatica trovare la verità di tutti, ma ancora di più dirla a tutti. In un mondo che sempre più rinuncia al proprio volto, che fa di tutto per mistificarsi che tende all'appiattimento e al livellamento universale fare il mestiere di poeta è sempre più difficile». Allora - siamo negli anni '80 come adesso negli anni del secondo millennio - la cultura tende ad essere sempre di più livellata, sterile, strumentalizzata a fini utilitaristici dove l'unico scopo è quello del “divertissiment”, distrarre.
La poesia, la scrittura che tesse e ha tessuto la storia del Salento, del Sud è invece quella sofferta, vissuta, di lotta e conquista, di dolore verso una terra che alle volte sembrava indifferente alle grida di dolore.
Nonostante tutto c'è stato chi ha creduto nel potere della poesia, della conoscenza e aleggia fortunatamente sulle nostre teste, veglia sulle nefandezze, sulla nullità italiana.
Molti hanno creduto che essere poeti significava offrire versi per difendere il proletariato, i lavoratori, chi si sporcava le mani con la terra. Ed oggi a favore di chi o cosa si dovrebbe scrivere? Non esiste una politica, non esistono ideologie, non esistono coloro che difendono i diritti, i valori universali, la propria patria. O se ci sono non si vedono. Esistono però i poeti che scrivono la vita e cercano in qualche modo di dare speranza. «Come? Ora non conosci la conosci la vita neanche tu? … La tua composizione di sangue e di ossa è la pietra / focaia che non incendia più neanche ipoteticamente. / É cambiata la tua botte visualistica? / Hai compresso senza scoppio e l'aderenza / è pellurica». (Lucio Conversano).
Si leggono versi che parlano degli abitanti di un Sud emigrante, che descrivono la terra calda, l'odore buono del pane che brucia, l'aspro arancio dell'orto. «E guarda muto / nell'infinito / mare d'aria / alla ricerca / degli affetti / che non moriranno / mai. / E soffrendo non s'appaga / e vive / ricordi / lontani / sempre vicini / giustizia sociale / chiedendo / senza / pietà».
C'è la sperimentazione di fare poesia che appaia diversa nella forma con i dovuti spazi, i silenzi, ai quali solo il lettore ha il potere di dar forma, di darne un senso. (Pino Maggiore).
Ci sono molte altre voci nel fascicolo “Caffè greco” e c'è la bellezza disincantata di una nota di Antonio Verri scritta il 12 ottobre del 1980 che si scusa di certe imperfezioni, refusi o deficienze in sede di correzione di bozze. Che meraviglia!
Come si fa - mi chiedo - a dare retta alle imperfezioni, a tutte queste formalità descritte dal nostro Antonio quando - ammesso che ci siano - sono solo distrazioni che non possiamo permetterci di fronte a materia infuocata, a parole che parlano, ti arrivano, bruciano come magma incandescente, sono un senso contro il quale nessun errore ortografico ha valore e significato di esistere. Forse adesso si dà più retta alla forma perché la sostanza manca, e ciò che si vuole dire non ha forse un potere, un'energia così devastante da confondere e credere all'esserci, a ciò che è e non ciò che si vuole dimostrare tra orpelli e maschere varie.
La poesia è vita: necessità, esigenza, idee, sensazioni, emozioni ed è di questo che occorre parlare, di vita e viverla ognuno dando la propria testimonianza e il contributo perché tante morti di poeti (mi rivolgo anche alle donne) salentini e non, non siano state inutili. Perché le loro morti siano da monito per lottare con la penna, o con i propri strumenti a rinnovarsi o meglio a ritornare per fare una poesia militante che distrugga le ragnatele dell'ipocrisia e della menzogna, del perbenismo, che racconti la verità e che sia ascoltata perché cambiare si può, deve esserci la speranza non disillusa, ma sincera utile a dar forza e coraggio alla vita che - nonostante tutto - va vissuta.
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